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C’è un’immagine che racconta perfettamente Beppe Bergomi, la sua carriera, il suo attaccamento viscerale a quella squadra che l’ha preso dalla Settalese a soli quattordici anni e dopo qualche giro di campo l’aveva già trasformato in Campione del Mondo.

E c’è un’immagine, sì, un’immagine che racconta tutto, il Bergomi in purezza, che stravolto, quasi senza voce ma con un picco d’orgoglio mai visto, racconta all’allora inviato Rai Gian Piero Galeazzi, la potenza di uno scudetto. L’unico della sua carriera. Arrivato dopo quasi un decennio dal Mondiale in Spagna.

Si era tolto un peso che sembrava non avesse mai portato. Neanche quando Spillo Altobelli era andato alla Juventus, e Beppe Baresi scompariva sempre più nei radar.

Neanche quando era rimasto l’unico barlume di interismo in una squadra capitanata dall’allenatore di quelli lì, il Trap che aveva faticato un po’, ma che poi aveva vinto e che s’era dimostrato quasi più interista di tutti. Un’immagine, quella, che ha accompagnato tutta la carriera di Bergomi. Bandiera quando le bandiere iniziavano già a scarseggiare. Infine, voce del nostro cuore.

Da ragazzo a Zio

Beppe Bergomi non è mai stato ragazzo. O meglio, riformuliamo: è sempre sembrato un uomo.

Per l’attenzione, l’accortezza, la scorza dura che è solo superficie. Tra i momenti più traumatici e più difficili, il giorno in cui suo padre lo lascia, ad appena 16 anni: era in ritiro con la Nazionale giovanile, a Lipsia, già una stella dell’Inter. Inter che lo accoglierà in tutto e per tutto, e per quello Beppe sarà sempre grato, fino all’ultimo giorno della sua carriera, senza mai guardare altrove.

Da ragazzo si fece subito uomo, anzi: divenne lo Zio. Sapete dove arriva il celebre soprannome? Da Gianpiero Marini, altro giocatore determinante per i nerazzurri. Aveva un’aria così matura che non c’entrava nulla con la carta d’identità. Era già uno Zio. Ed era già fortissimo.

Non a caso, la storia con l’Inter inizia a 16 anni e un mese – resta il record assoluto in casa Inter -, il debutto arriva addirittura contro la Juventus (in Coppa Italia) ed è appena iniziato il 1980.

L’anno successivo arriva il debutto in Serie A, a 17 anni e due mesi: erano fuori Canuti e Oriali. Bergomi subentrò e fu perfetto, allo stesso modo qualche giorno più tardi, stavolta in Coppa dei Campioni contro la Stella Rossa. Marcò Petrovic, il “Rivera jugoslavo”. Gli tremavano le gambe. Come sempre, non diede modo di farlo notare.

Oh, dopo la prima con la Juve, un debutto europeo con la Stella Rossa, contro chi poteva mai arrivare la prima rete? Derby di Milano, ancora Coppa Italia: gol al minuto 89 che sancisce il 2-2 finale. Un predestinato. Che attira l’attenzione di Enzo Bearzot, ancora in dubbio sul gruppo che avrebbe convocato per il Mondiale del 1982.

Alla fine, lo Zio entrò nell’ultimo giro di una squadra storica. Due anni prima, decideva le partite della Primavera; due anni dopo, era campione del Mondo. Fermando Serginho prima e Rummenigge poi (e in finale). Meritando tutto e a pieno titolo.

Vent’anni di Inter

Sul tetto dell’universo e allo stesso modo una carriera da architettare, organizzare, di cui essere orgogliosi. Icaro era arrivato vicinissimo al sole, eppure le ali con le quali era volato fin lassù non si erano affatto bruciate. Tutt’altro: le prestazioni di Bergomi crescevano sempre di più, e sempre di più diventava un elemento insostituibile per quell’Inter.

Ad appena 25 anni divenne il capitano, al primo colpo con la fascia portò a casa lo scudetto e la Supercoppa Italiana in una stagione irripetibile e da record – l’Inter vinse il campionato ottenendo 58 punti su 68 -, con Trapattoni in panchina, che nel 1990-91 ottiene anche la Coppa Uefa. La prima nella storia del club e chiaramente anche in quella dello Zio.

Che c’era. Anche quando le cose non andavano, lui c’era. C’era per il secondo posto nel 1993, c’era per una nuova Coppa Uefa nel 1994; c’era negli anni degli ottavi posti, come il 1992, nella tribolata annata in Serie A del ’94 mentre in Europa sembrava una squadra invincibile, dove in campionato la salvezza arrivò matematicamente solo all’ultima giornata.

C’era e riuscì a sopravvivere anche alla rivoluzione dello stesso anno: via Ferri e Zenga, gli uomini delle ultime vittorie, dentro Pagliuca e un nuovo corso, inaugurato da Hodgson e portato avanti a Gigi Simoni. Ecco, Simoni. Forse il tecnico con cui Bergomi ha avuto il rapporto più solido, stretto, efficace. Il mister che gli cambiò gli ultimi anni di carriera: da terzino a libero, una trasformazione che cambiò anche l’Inter. Bergomi fece talmente bene da ritrovare la Nazionale, giusto in tempo per il Mondiale del 1998. Sfiorò anche lo scudetto, poi vinto dalla Juventus, nella stagione più polemica di sempre, quella del primo anno di Ronaldo “il Fenomeno” in serie A.

Fu l’ultimo, grande squillo di una carriera come nessuna, legata a un filo azzurro e a un altro nerazzurro. E terminata con un po’ di pesantezza nel cuore: anche quella, mai mostrata in pubblico o in pubbliche dichiarazioni.

Nella stagione in cui Lippi sogna di emulare il Trap, Bergomi non fa più parte dei piani: ha già dato la fascia di capitano a Ronaldo, ha tagliato il traguardo delle 750 presenze ma in cuor suo aveva colto il momento.

Il ritiro sembrò l’opzione migliore, dopo vent’anni d’amore incommensurabile.