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L’esterofilia e la conseguente presenza di giocatori stranieri in serie A è ciclicamente additata come male del nostro calcio, che stritola e umilia il gran lavoro svolto nei settori giovanili.

Eppure il calcio non è certo uno sport nostrano. Arriva da fuori. E proprio gli stranieri – inglesi per la precisione – sono stati i primi ad importare lo sport nel bel paese.

Agli albori dove gli stranieri erano gli italiani

Sport d’importazione quindi e come tutte le cose d’importazione sul finire dell’ottocento è nei porti che dobbiamo cercare. Arriva infatti da Genova la prima traccia del calcio nostrano, importato dai mercanti inglesi attivissimi nella città della Lanterna.

Vi siete mai chiesti perché si chiama Genoa e non Genova? È proprio per una storpiatura della pronuncia in lingua inglese della città.

Comunque nell’epoca pionieristica della serie A non è che vi sia molto da contare: gli stranieri, soprattutto britannici ma anche francesi e svizzeri, sono la maggioranza e sono gli italiani ad essere reclutati per far parte delle squadre.

Solo dopo la tragica “livella” della prima guerra mondiale si trova un riequilibrio della situazione, con questo sport che divenuto molto popolare si prepara ad intaccare il ciclismo come primo interesse degli italiani.

La Pro Vercelli destinata a dominare gli anni 10 del novecento in ambito calcistico è la prima squadra con un nucleo tutto italiano e quella che possiamo definire come la prima vera espressione del calcio nostrano.

L’ascesa del regime in Italia negli anni successivi porta ad una progressiva chiusura verso tutto quello che arriva dall’estero, compresi quindi i calciatori.

Unica eccezione gli oriundi, che popolano anche la nazionale italiana. Sudamericani, argentini soprattutto, che contribuiscono ad innalzare il livello del nostro calcio.

Nomi come Julio Libonatti, ancora oggi secondo marcatore di tutti i tempi del Torino, ma anche Raimondo “Mumo” Orsi il primo calciatore star dei rotocalchi e Luis Monti, il truce mediano che proprio assieme a Orsi vincerà anche un titolo mondiale con la squadra azzurra di Vittorio Pozzo.

La seconda ondata straniera nella serie A ha quindi sangue sudamericano, dopo la prima di schiatta britannica.

Dall’invasione scandinava alla chiusura

Uno dei motori del secondo dopoguerra è proprio il calcio, trainato dalle imprese del grande Torino che creano quella base di tifosi che sarà decisiva nei decenni successivi. La squadra granata rappresenta il meglio del calcio italiano in un’epoca in cui molte formazioni guardano all’estero per migliorare la propria rosa.

Iniziano infatti le operazioni di calciomercato in maniera massiccia e per spendere meno i nostri dirigenti guardano a quei paesi dove il calcio è visto ancora come un passatempo non retribuito.

Danesi e svedesi soprattutto iniziano a popolare il nostro torneo, molti dei quali di grande livello.

Ai mondiali del 1950 una nazionale ancora turbata dalla tragedia del Grande Torino si presenta in Brasile (in nave sic!) dove viene estromessa da un manipolo di dilettanti svedesi: molti di quei giocatori faranno poi tappa in Italia, come ad esempio Skoglund all’Inter e il trio Gre-No-Li al Milan con i superbi Gren, Nordhal e Liedholm.

Ma questa è anche l’epoca dei danesi alla Juventus, o del celebre Arne Selmosson «raggio di luna» rimasto per moltissimo tempo l’unico straniero ad aver segnato nel derby di Roma con entrambe le squadre (raggiunto poi da Kolarov in questo record solo nel 2018) e Hasse Jeppson primo giocatore della storia ad essere pagato più di 100 milioni di lire.

Oltre agli scandinavi, gli anni 50 sono ancora, come sempre sarà, meta per i calciatori sudamericani in Italia, così attratti da una cultura simile e dalle loro origini.

Dopo i mondiali 1950, quelli del Maracanazo, scoppia la moda degli uruguagi, con Ghiggia che si accasa alla Roma e Schiaffino che approda al Milan dove poi farà da chioccia ad un certo Gianni Rivera.

I sudamericani hanno anche la possibilità di giocare per la nostra nazionale, dato che i regolamentio dell’epoca non mettono un freno al numero di nazionali con cui si possono disputare partite ufficiali. Ghiggia e Schiaffino, assieme ad altri come Dino Da Costa e poi in seguito Angelillo, Sivori, Maschio e Altafini sono stati a più riprese chiamati in causa in maglia azzurro.

Arriva però il fallimento del 1958 con quella che per molto tempo fu l’unica mancata qualificazione ad una fase finale di un mondiale (bissata 60 anni dopo). In quel momento inizia un dibattito acceso sull’utilizzo degli stranieri nel campionato italiano, cosa che continuerà ancora per quasi tutti gli anni 60. Si trova un compromesso con la possibilità per le squadre di utilizzare al massimo due giocatori non italiani in campionato, tre quando si parla di coppe.

È l’epoca del primo Milan campione d’Europa dove gioca il brasiliano Dino Sani, dell’Inter di Herrera in panchina e Suarez e Jair in campo con lo straniero di coppa Peirò, della Juventus prima di Charles e Sivori poi coadiuvati da Haller che aveva fatto in tempo a vincere uno storico scudetto a Bologna assieme ad Harald Nielsen. Ed ancora Kurt «uccellino» Hamrin a Firenze dopo le esperienze juventine e padovane e prima di quelle milaniste, Germano De Sales e Fustino Canè primi giocatori di colore a calcare i campi della serie A.

La disfatta del mondiale 1966, quello del gol del dentista nord-coreano Pak Doo-ik che ci caccia dal torneo, è la classica goccia che fa traboccare il vaso. I vertici federali decidono che i motivi delle continue disfatte della nazionale sia il mancato ricambio generazionale di qualità, puntando il dito verso gli stranieri.

Pertanto stop ai tesseramenti, le squadre potranno continuare ad utilizzare quelli già presenti nelle loro rose, e quindi per i giocatori stranieri solo trasferimenti interni.

L’ultimo a resistere fu Sergio Clerici, brasiliano all’anagrafe, ma con il compito di «ultimo giapponese» di una colonia nutritissima. Il suo ultimo campionato fu nella stagione 77/78 con la maglia della Lazio. Da li in poi nessun straniero in serie A per qualche stagione…

La riapertura del 1980 e l’epoca d’oro della serie A

Nel 1980, sulla scorta di una crisi di popolarità del calcio minato dallo scandalo totonero, si decise di riaprire le frontiere. Questo anche perché non è che la nazionale abbia poi giovato della chiusura (solo un titolo europeo nel 1968) e le squadre italiane facevano un’immensa fatica nelle coppe europee dove le formazioni straniere avevano a disposizione anche assi da altri paesi da poter sfoggiare: basti pensare al divino Cruijff a Barcellona.

Quindi in vista della stagione 80/81 tutte le squadre possono ingaggiare uno straniero: arrivano autentici campioni come Falcao alla Roma, Krol al Napoli e Brady alla Juventus. Ma con loro, nella sfrenata corsa all’asso straniero, arrivano anche Luis Silvio alla Pistoiese o Eneas de Camargo al Bologna. Insomma inizia un’epoca indimenticabile per il nostro calcio, tra campioni e bidoni.

Dalla stagione 82/83 gli stranieri salgono a 2 e dalla stagione 87/88 passano a 3. È un epoca dove il meglio del calcio mondiale passa dalla serie A e si potrebbe riempire un’intera pagina con i nomi dei campioni che hanno calcato i campi di A.

Platini, Zico, Rumenigge, Maradona, Careca, il trio olandese del Milan di Sacchi e quello tedesco dell’Inter di Trapattoni. Ma anche Briegel ed Elkjaer nel miracoloso Verona campione d’Italia, Voller alla Roma, Cerezo prima in giallorosso poi nella Samp scudettata di Boskov, Sosa alla Lazio e Dunga alla Fiorentina e un giovanissimo Diego Pablo Simeone al Pisa (questo vi mancava eh?).

Nei primi anni 90 la colonia si popola di campioni che segneranno un’epoca come un giovane Batistuta che arriva alla Fiorentina nel 91, raggiunto qualche anno dopo da Rui Costa, Bergkamp nella sfortunata parentesi interista, e Weah che è il primo giocatore africano a sfondare davvero nel nostro campionato.

Un’ondata che però è nulla in confronto a quello che accadrà dalla stagione 96/97, la prima dopo la rivoluzione totale del calcio Europeo.

Dalla legge Bosman ad oggi

Succede infatti che nell’estate del 1996 Jean Marc Bosman, oscuro giocatore di serie minori tra Belgio e Francia ricorra direttamente al tribunale europeo per il lavoro, per vedere riconosciuta la possibilità di giocare nel campionato francese anche se cittadino belga, in ossequio alle norme sulla libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione Europea.

Questo principio porta una vera rivoluzione nella gestione degli stranieri all’interno dei campionati nazionali, cosa che investe ovviamente anche la serie A: ai nastri di partenza del campionato 96/97 avviene una vera invasione se pensiamo che nella stagione precedente gli stranieri erano 19,1% del totale per poi superare il 25% nel post-Bosman. Un processo che porterà al progressivo aumento fino al sorpasso della stagione 12/13 dove il 50,1% dei giocatori impiegati non sarà di nazionalità italiana.

Nel mezzo anche qualche piccolo intoppo nei regolamenti, con il caso della stagione 2000/2001, quella dello scudetto della Roma di Capello, dove sul finale di campionato si liberalizza anche lo schieramento di giocatori extra-comunitari cosa che permette proprio ai giallorossi di utilizzare Nakata, fin li sempre in ballottaggio con Assuncao.

L’apertura portata dalla legge Bosman fa arrivare in serie A giocatori di ogni parte mondo, con il calcio divenuto sempre più sport globale: dal primo giapponese Miura (ancora in poca pre-Bosman) al primo cinese (tale Ma-Myngu al Perugia di Gaucci) al primo iraniano (Rezaei sempre al Perugia) al primo statunitense (l’indimenticato Alexi Lalas a Padova).

Ma arrivano anche i campioni quelli veri, da Zidane a Ronaldo, da Shevchenko a Kaka, fino all’epoca odierna dei Cristiano Ronaldo e Lukaku.

Oggi l’impiego di giocatori comunitari non ha limiti mentre per gli extracomunitari vale il principio di uno entra solo se uno esce (cosa che porta a giri di mercato talvolta imbarazzanti).

Per la serie A e le coppe Europee ci sono liste che tutelano i settori giovanili, a prescindere dalle nazionalità dei giocatori e bisogna comunque avere un minimo di tesserati cresciuti nel club.