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Zdenek Zeman, ovunque sia andato, ha sempre portato con sé un momento di spensieratezza. È che con Zeman, all’improvviso, e nonostante un passato particolare, tutto diventava possibile in un’estate di attesa, aspettative, chiarimenti.

Oh: per “tutto” intendiamo tutto. Ogni situazione. Ogni soluzione. L’alfa e l’omega, il grande e il piccolo, il bianco e il nero (anche se a Zeman certi colori non l’hanno mai scaldato). Il giallo e il rosso sì, sono stati parte fondamentale della sua vita.

Il grande break, la grande chance, l’occasione che non avrebbe dovuto farsi sfuggire per lui è sempre stata rappresentata dalla Roma. Due chiamate: la prima nel 1997 dopo tre stagioni alla Lazio, la seconda nel 2012. Lui era rimasto lo stesso, è sempre rimasto lo stesso. Il calcio nel frattempo aveva subito un’irrimediabile rivoluzione.

La prima esperienza

Prima di raccontare Zeman alla Roma è necessario raccontare Zeman alla Lazio.

Non per un filo indiretto da cui bisogna necessariamente slegarsi. Ma per spiegare per bene la rivoluzione che il tecnico aveva in testa: aveva funzionato perfettamente nella sua esperienza a Foggia con Baiano-Signori-Rambaudi nella storia, aveva rivoluzionato tutto pure in biancoceleste con tre anni da tanti gol e qualche schiaffo forse troppo forte. Alla terza stagione, con Boskic, Di Matteo e Winter aveva perso benzina per il suo gioco e l’occasione offerta da Sensi gli parve una buona idea. Agli occhi dei laziali fu un tradimento giustificato da un’ideologia di fondo. Del resto, chi è convinto, anche dei suoi errori, tendi più facilmente a perdonarlo.

L’anno successivo, la Roma è una sua copia sbiadita: fa buon calcio, ma i risultati tardano ad arrivare. Siamo nel 1997-98, una stagione calda per la Roma che da quando ha cambiato proprietà cerca invano di correre verso un posto d’elite. La Coppa Uefa non basta. Non basta l’altalena di risultati, accontentarsi di un attimo dopo aver cavalcato quello precedente. Eppure Zeman, nonostante la diffidenza iniziale e pure quella finale, riesce ugualmente a lasciare una traccia. E sarà una traccia che durerà per sempre.

Nella sua parentesi romanista, infatti, lancerà definitivamente Francesco Totti e lo renderà il capitano di quella squadra. Farà nuovamente fiorire Marco Delvecchio, fondamentale per i giallorossi e soprattutto per la Nazionale, che in quell’estate si appresta ad affrontare il Mondiale di Francia 1998. Pare poco.

È stato più che abbastanza.

Quando torna alla Roma

Quando torna alla Roma, Delvecchio non c’è più, Totti è agli ultimi sgoccioli d’oro di una carriera diventata immortale tra scudetto e Mondiale di Germania.

È il 2012. Ha appena reso il Pescara una squadra incredibile, anche grazie al mercato di prestiti che gli ha fornito il presidente Sebastiani: ha coltivato un talento come Verratti, ma anche dato fiducia a Lorenzo Insigne (che aveva avuto a Foggia) e Ciro Immobile, dalla Primavera della Juventus al ruolo di capocannoniere in Serie B.

La Roma fiuta l’occasione, in città non si parla d’altro. Nonostante un anno interlocutorio, il ricordo di Zeman – anche per il fatto d’aver mollato la Lazio, quasi declassandola, pur di approdare alla Roma – è estremamente vivo nei tifosi.

La devozione non si spiega con i risultati, ma si racconta con le battaglie del boemo.

Quella contro la Juve, acuita dopo i fatti di Calciopoli. Quella contro i “poteri forti” e le big di A, dato che ha allenato solo e soltanto squadre piccole o medio-alte – ci perdoneranno i romanisti e i laziali.

Quella contro chi si risparmia e contro chi pensa esclusivamente al risultato, come se il calcio fosse solo un mezzo e non il fine ultimo. Ecco, presi tutti questi elementi, veniva fuori una figura naif, particolare, e quella particolarità si sposava alla perfezione con la voglia di cambiamento dei romanisti. In arrivo da anni di esperimenti e sperimentando da anni la paura di perdere tutto quello che avevano costruito.

Zeman, tornato alla Roma il 2 giugno del 2012, era tornato a distanza di tredici anni per questi motivi e per tutto il resto che c’era da fare. Firmò un contratto biennale e fu una novità clamorosa: come tutti gli allenatori aggrappati a una solida idea di gioco, il suo è un incantesimo che si avvera o meno, senza mezze misure o scorciatoie.

Dunque legato a un annuale. Cosa venne fuori? Un esonero, il 2 febbraio del 2013, dopo una stagione di alti e bassissimi, e dopo aver lanciato giovani molto forti e futuri campioni. Due nomi. Marquinhos e Florenzi.