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Il 30 aprile del 1949 il Grande Torino gioca l’ultima partita di calcio sul suolo italiano. Siamo a San Siro e si gioca Inter v Torino. Tra gli undici presenti in campo, per il Toro, c’è anche Valentino Mazzola, padre di quel Mazzola Sandro che scriverà pagine di storia nerazzurra.

Le due squadre di separano di quattro punti. Il Toro è in testa alla classifica. Non è una novità; accade ormai da cinque stagioni. I novanta minuti, o poco più, decretano un verdetto non matematico ma quasi: lo 0-0 garantisce infatti al Torino un più che tranquillo finale di stagione.

All’epoca, ancora non esiste la Coppa dei Campioni, ma un’amichevole internazionale è comunque una discreta occasione per intascarsi qualche lira e respirare un’aria da calcio europeo. Accade allora che il Mazzola padre, Valentino, amico vero del grande Francisco Ferreira, capitano del Benfica, decide di raggiungere insieme al resto della squadra il caldo Portogallo, per una partita che commemori al meglio l’addio al calcio proprio di Ferreira.

Partono tutti, esclusi Sauro Tomà e Renato Gandolfi. Quest’ultimo, contrariato più del primo per la scelta della dirigenza, si precipita dal vicepresidente del Torino, chiedendogli il perché di quella decisione. Riportando le parole del presidente – assente per un viaggio estero –, l’indimenticabile Ferruccio Novo, gli viene comunicato che Aldo Ballarin, presente nell’undici titolare, lo aveva pregato di poter portare sull’aereo, al suo fianco, il fratello Dino, terzo portiere dei Granata.

Il Torino perde la partita col Benfica, ma in campo, prima e dopo la partita, è una grande festa. I giocatori granata, ad ogni modo, sono desiderosi di tornare in patria, dove ad attenderli, oltre agli affetti familiari, ci sono anche le restanti partite di campionato; sarebbe, per il Toro, il quinto Scudetto consecutivo.

Ma le condizioni meteo al ritorno in Piemonte sono tutt’altro che rassicuranti. Delle nubi minacciose s’elevano all’orizzonte. Una cattedrale, sulla collina di Superga, sarà l’ultimo luogo sacro sul quale i giocatori del Grande Torino poseranno le proprie anime. Una squadra divina si spegne nel luogo dove Dio è di casa. È il 4 maggio del 1949, è la fine del Grande Torino. È l’inizio di un mito senza tempo.

La costruzione del grande Torino

È il 1939 e Ferruccio Novo, imprenditore innamorato del Torino, lo acquista per una cifra che, oggi, farebbe ridere l’attuale patron Cairo. È l’inizio di un cammino che meriterebbe un romanzo a parte. E in più parti. Proveremo a raccontarvele in questo maldestro e umile tentativo.

Novo non è solo un amante del calcio; ne è – cosa assai più importante – un grande conoscitore. Ferruccio studia i modelli societari d’Oltremanica, ed è da qui che trae l’ispirazione per una mossa tanto innovativa quanto irripetibile per il nostro calcio: egli è, in una parola, un manager. Organizza il club sul modello delle squadre inglesi; efficienza ramificata, pochi e fidati, oltre che molto abili, consiglieri, gestione piramidale a livello e economico e tecnico.

Quando lo preleva nel ’39, il Torino non vince da 11 anni. Il primo, grande, acquisto della sua gestione risponde al nome di Franco Ossola. Con i colori granata, Ossola, allora 18enne, giocherà la bellezza di 158 partite segnando 78 gol.

Ma è la sessione estiva del 1941, quella appena antecedente la Seconda Guerra Mondiale, a segnare una svolta decisiva. Ferruccio Novo sa che per competere ad alti livelli servono alti profili. Arrivano dunque il portiere Bodoira, Felice Borel, Guglielmo Gabetto. Su quest’ultimo è necessaria una breve parentesi. Soprannominato il Barone, arriva al Torino dalla Juventus. Lo danno per finito: segnerà 127 gol in 225 partite. Alla faccia dei tramonti.

Ma arriva anche Romeo Menti, dalla Fiorentina. Giocatore sublime, ha 22 anni quando il presidente Ferruccio Novo lo ingaggia all’ombra della Fiesole. Ha tutto. Tecnica, forza fisica, fantasia. E una personalità che, solo guardando le foto e i video dell’epoca, quasi trasuda dalla larga mascella, dal mento fermo, dal petto all’infuori e il capello sempre in ordine. Col Torino segnerà 53 gol in 133 partite, ma le sue qualità non sono riassumibili in alcun tipo di numero. È un giocatore totale, Romeo Menti. Semplicemente leggendario. Con lui si affianca l’ultimo acquisto di quella campagna estiva; Ferraris II, ex Roma. Giocatore di grande esperienza, capace però ancora di qualche guizzo decisivo.

La stagione 41/42 vede il trionfo della Roma. A Venezia, il Torino affonda in laguna, e la Roma ringrazia cogliendo il remo in barca. Quel successo sfuggito all’ultimo induce Novo a rendere ancor più competitivo il Torino. Borel convince Novo che bisogna cambiare sistema di gioco, intanto. Si passa al cosiddetto sistema. Tradotto: calcio totale ante-litteram.

Arrivano, proprio dal Venezia, due acquisti assolutamente essenziali per la futura storia granata: trattasi di Valentino Mazzola ed Ezio Loik. Per il primo, i numeri sono superflui e in quanto tali vi chiediamo di accoglierli: 201 presenze e 123 gol. Per Loik, 165 presenze e 64 gol. Quest’ultimo è soprannominato l’Elefante per le particolari movenze che, tra l’impacciato e il sornione, sembrano nasconderne la straordinaria efficacia in zona gol. Ma arriva anche Giuseppe Grezar; per lui 159 partite con la maglia del Toro, di cui è il geometra, la mente, l’acutissimo mediano.

La squadra più forte di sempre

La stagione 42/43 è quella buona, finalmente. Arriva addirittura la Coppa Italia, per un Double che nessuno, fino a quel momento, era mai riuscito ad ottenere nel nostro campionato. A fermare un inizio corsa che ha del poderoso ci pensa la Guerra; è il più grande conflitto mai registrato e all’Italia – che sotto il Duce non ha intenzione di giocare un ruolo da comprimaria – serve mano d’opera armata.

Ecco allora che il presidente Novo prende le vesti del Padre, più che del Patron, riuscendo, con un colpo degno dell’arte nordica spadaccina, a far “assumere” tutti i propri calciatori come operai della FIAT, automobili di Torino. Risultato? Non solo i giocatori del Toro non vanno in guerra, ma stringono in quei mesi di fratellanza un cameratismo che, di riflesso, porterà a quattro anni di dominio incontrastato nel nostro calcio.

Finisce la Guerra, e ricomincia a girare il Paese. Soprattutto, ricomincia a girare il Toro. Novo, che esce bene economicamente dal conflitto mondiale, è pronto al rafforzamento della squadra. Senza troppe ambagi, arriva Maroso, prodotto del vivaio e terzino di enorme eleganza. Anticipatore dell’uomo tutta fascia, il granatino non si limita alla fase di copertura, ma ama e anzi predilige la fase offensiva. Per lui sono 103 le presenze in maglia Toro. Mica farfalline.

Rigamonti di anni ne ha 19. Bacigalupo, il portiere, è giovane ma già fenomeno. Suo fratello giocava nel Torino che, nel ’22, vinceva il campionato. Il piccolo ma grande Bacigalupo giocherà 137 volte con la maglia numero 1 sulle spalle. Ma arriva anche Ballarin dalla Triestina (ha 23 anni); è forse il miglior terzino al mondo in quel momento. Per lui, col Toro, saranno 147 le presenze totali. Infine, ricordiamo l’acquisto di Eusebio Castigliano, detto Zampa di Velluto, difensore eccezionale, che nell’ossimoro che reca il proprio nome rispecchia ogni molecola della propria natura calcistica. Ha un cuore enorme.

Quello del dopoguerra è il primo campionato diviso in Alta Italia e Centro-Sud. Le due migliori squadre si affronteranno nella finalissima. Risultato? Torino-Roma 7-0, Roma-Torino 1-7. 108 gol fatti e 32 subiti, per i Granata Campioni d’Italia. Di nuovo.

Anno nuovo, vita nuova, soliti grandi acquisti. Dal Brescia, arriva Danilo Martelli. Insieme a Rigamonti e Bacigalupo, forma il celebre trio Nizza. I tre vivono insieme, sono guaglioni, si direbbe a Napoli, che le donne fanno innamorare. La cavalcata di quel Toro è davvero senza precedenti, e senza storia. 104 gol complessivi, è ancora Scudetto.

L’11 maggio del ’47 l’Italia affronta l’Ungheria. Dieci uomini su undici sono del Torino, con l’eccezione del portiere. Finisce 3-2 per gli Azzurri, ma forse bisognerebbe dire “per i Granata”. Non era mai successa una cosa simile; non accadrà mai più.

Dall’Olanda, nel frattempo, Ferruccio Novo convoca e spedisce in Italia Leslie Lievesley. È un allenatore che sposa la causa Torino come gli fosse cucita addosso. Chi può battere questo Torino? Nessuno. Ma nessuno, come Ulisse insegna nell’Odissea, non si vede. Dio anche, non lo vedi. Ci credi e non ci credi.

Il Torino Grande, il Grande Torino. E Fausto Coppi, con loro; lui, tifoso granata, e i granata, simbolo rotondo e su ruota di un’Italia che rinasce e ha voglia di vivere. Il quarto d’ora granata, il grido Toro, Toro al suono della trombetta di Oreste Bolmida. E Rubens Fadini, Ruggero Grava, ultimi due eroi di una squadra che, creatrice del Destino, il Destino se l’è mangiata. Dio non lo vedi, ci credi e non ci credi.