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Talvolta, meglio i piedi che le braccia di Morfeo. Di sicuro, quelli di Mimmo – cioè, Domenico – avevano un potere tutt’altro che soporifero: l’unico tratto in comune era composto dai sogni, perché con quella qualità poteva soltanto crescere la fantasia. Sua e della squadra.

Dunque, capito di chi stiamo parlando? Di uno dei calciatori più dotati tecnicamente della storia del calcio italiano. Con una conquista importante che aiuterà a crescerne fama, ad aumentare prestigio, a dare una sterzata anche ai rimpianti: Mimmo Morfeo, più dell’essenza di trequartista, più dell’arte del passaggio, più dell’intelligenza nell’ultimo passaggio, ha saputo essere un giocatore universale. Spieghiamoci: è stato di tutti, andando ben oltre le maglie che ha avuto la fortuna di indossare.

Un’altra, grande storia

Era un genio, Morfeo. Non un ‘genietto’, di quelli fatti di promesse e premesse. Pure se con discontinuità, tutto quello che aveva da mostrare l’ha dato in pasto ai tifosi. Classe 1976, arriva da Pecina: a 14 anni, dopo tanta scuola calcio, le cose iniziano a farsi ben più serie. L’Atalanta lo pesca dal nulla e gli dà le chiavi della formazione giovanile: lo scopre Bixio Liberale, in realtà. Che sarà il suo allenatore e che per anni ha continuato a fornire talenti alla ricchissima storia dei ragazzi bergamaschi. Ed è una grande storia pure la sua, con l’Atalanta. Meno grande solo di quella tra Mimmo e la Nazionale: come ogni 10 che si rispetti, faceva sfracelli in azzurro. Gol e assist in tutte le rappresentative juniores.

Mamma mia, che squadre. E che generazione. Per capirci: l’Italia dei ragazzi poteva schierare, contemporaneamente, Di Vaio, Morfeo e Francesco Totti in attacco. Il debutto in Serie A sembrò un passaggio doveroso: a 17 anni, il 19 dicembre 1993, la Dea vinceva e soffriva contro il Genoa. Dentro anche il ragazzo, Mimmo. Che in tutta la stagione metterà insieme 9 presenze e un bagaglio di esperienza fondamentale e necessario. Servivano un po’ di muscoli, certo. Ma la qualità era già da massimo campionato.

Poi, quel sinistro. Meraviglia tra le meraviglie. Sarà che in Serie A, da Maradona e Baggio in giù i mancini hanno una luce tutta diversa. Sarà semplicemente che al cospetto dei più forti, quando il nostro campionato brillava di luce propria e pure di quella irradiata dai fenomeni, Morfeo non ha mai sfigurato. Tutt’altro. Non a caso, a Bergamo continuano a chiamarlo ‘Maradonino‘, piccolo Maradona. La Fiorentina non perse tempo e fece subito il colpo: lì Mimmo avrebbe avuto Batistuta da servire, Rui Costa da cui imparare.

Talento e personalità

Ventisei presenze, cinque gol. Qualche assist un po’ sparpagliati in giro. E un salto in avanti che non s’aspettava, che però divenne necessario dato il ridimensionamento della Viola. Il Milan sembrò un segnale più del destino che del mercato, in realtà fu un vizio di patron Berlusconi: quella formazione non prevedeva un trequartista e lo spazio ovviamente divenne impossibile da trovare. Da lì ebbe quindi inizio il suo peregrinare: prima il Cagliari, poi al Verona. Dove ritrovò l’allenatore con cui ha saputo esprimersi al massimo livello, l’ex commissario tecnico Cesare Prandelli.

E che stagione, quella all’Hellas. Morfeo riuscì a cambiare radicalmente la formazione: reti e giocate, il girone di ritorno rimarrà per tanto tempo una delle storie più liete del recente passato degli scaligeri. E Mimmo, subito dopo, si è fatto un grosso rimorso. Il motivo? Non riuscirono a trattenerlo: a gennaio, l’Atalanta lo riportò a casa, lui rispose con qualche gol e minuti accumulati. Sembrava il momento giusto per esplodere: lo fece soltanto fuori dal campo.

La forte personalità di Morfeo ha da sempre accompagnato il racconto delle gesta. Il carisma era tanto, ma non sapeva integrarsi agli esempi. Alla base Mimmo ha sempre peccato di sacrificio: non gli veniva naturale, a uno così abituato ad avere la palla tra i piedi e a comandare il gioco. Poi, gli infortuni: è raro, molto raro, che passi un campionato senza qualche stop forzato o lunghi periodi di recupero.

Inter e Parma, poi…

Un quadro che peggiora dopo la nuova stagione alla Fiorentina: emozioni, poche; giocate, quasi nessuna. La retrocessione del club toscano è un duro colpo, soprattutto al morale. Serve una scossa, un’opportunità, un’ultima spiaggia per dimostrare di essere grande. Tanto grande. Grande quasi quanto l’Inter, ché quella di Cuper era davvero immensa. “Sarà pronto per il grande salto?”, il lecitissimo dubbio. Domenico dimostrò ancora una volta di non esserlo: poca sostanza, tanto fumo. Gli interisti, aggrappati alle promesse, lo scaricarono decisamente in fretta.

Anche qui, il motivo era facilmente intuibile: Morfeo è sempre stato un giocatore che aveva bisogno di campo, di invenzioni, di giocate extra contesto e mai incastrate in uno spartito di gioco. Era il dieci perfetto per una provincia in crescita, e il vero assist del destino fu di fatto Parma, non San Siro. In Emilia ritrovò mister Prandelli e una sicurezza – oltre alla maturità – che prima non aveva mai avuto. A 32 anni, è il trascinatore di una piazza che sta imparando a risollevarsi ma che deve arrendersi alla mancanza di fondi e di prospettive.

Brescia e Cremona (con Mondonico) sono dolci finali. In realtà, i titoli di coda arrivano in seconda categoria: prima di appendere definitivamente le scarpette al chiodo, Morfeo giocherà nel San Benedetto dei Marsi, squadra del paese in cui è nato. Febbraio 2011: segnate la data. È il mese in cui tutto è finito, specialmente il sogno del ragazzo. Che oggi, quei rimorsi, li porta con sé e tra le ‘sue’ braccia. Ogni sera.