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Quella corsa che riconosceresti tra mille. Il furore agonistico. Le sovrapposizioni. Gli sfondamenti interni. La grinta in ogni azione. Guardando questa Juventus e quella che fu, il primo pensiero (banale) è che uno come Penna Bianca Ravanelli l’avresti messo ovunque e ovunque avrebbe fatto la differenza.

Perché Fabrizio, partito dal basso e arrivato sul tetto d’Europa, è uno che quei chilometri macinati se li è sudati dal primo all’ultimo. Dunque, è consapevole del valore che hanno. Di quanto, soprattutto, non siano scontati. A nessun livello. Ché se fallisci, non c’è un altro contratto milionario strappato dall’agente di turno.

In tanti ambiti, la gavetta è fondamentale. E il calcio, nonostante i naturali talenti, non fa eccezione. Nato a Perugia l’11 dicembre del 1968, già da ragazzino Ravanelli capisce di dover correre più degli altri e di dover lavorare al doppio dei ragazzi che lo circondano. Sa far gol, sa far valere le doti atletiche. Sa inserirsi e distribuire. Però… però come lui ce ne sono un po’, e già a Perugia. Figurarsi sui piani alti in cui si sogna giorno dopo giorno.

L’inizio di Penna Bianca

Una Penna Bianca pronta a scrivere una storia pazzesca, già dall’età di 8 anni, quando i capelli improvvisamente divennero il suo tratto distintivo. Sì, perché sin da bambino Ravanelli deve “combattere” con un fattore genetico ereditario e la chioma avrà per sempre il colore di un’età ancora lontana. Curiosità: a 17 anni, una banca lo sceglie come testimonial per alcuni fondi di investimento, eppure non aveva mai esordito in prima squadra.

Tempo al tempo, perché nella stagione 1986-87, Fabrizio inizierà la sua cavalcata proprio con il Perugia. È la Serie C2 e il tecnico è Mario Colautti, che subito lo schiera in attacco per sfruttare la stazza fisica. Il risultato? 5 gol in 26 presenze. E terreno preparato per l’anno successivo, stagione in cui gli umbri arrivano in C1 sbancando a destra e a manca e facendo sognare i tifosi. Lo farà soprattutto Ravanelli (23 gol in 23 partite), che resta a Perugia anche nell’anno successivo e segna 13 gol in 32 presenze. Con Di Livio formerà una coppia gol semplicemente di altri e alti livelli.

Livelli che Fabrizio provava sempre a raggiungere, a superare, a inserire nella lista delle cose già fatte. Ecco perché non volle perder tempo: alla chiamata dell’Avellino, in Serie B, rispose presente. Ma a ottobre è già della Casertana e di nuovo in C1: 12 gol in 27 gare, la città ha solo un nome in testa ed è il suo. Ancora Avellino e poi l’emigrazione al Nord, su richiesta diretta alla società: poteva andare alla Salernitana, tanti soldi in ballo, decise di crescere in un ambiente in cui potesse ricevere meno coccole e più calci. Ovviamente, avrà ragione lui.

La corsa verso i miti

E allora: Reggio Emilia e due anni in B, nel 1991 addirittura da 16 reti con la Serie A davvero sfumata per un soffio. Poi? La chiamata dall’altissimo, dalla Juventus, con Boniperti che intravide nella sua leggerezza la giusta riserva di Schillaci e Casiraghi. Fabrizio accettò tutto, proposta e difficoltà. Lui, juventino fin da piccolo, aveva l’unico desiderio di realizzare il sogno del bambino. Aveva 24 anni e una carriera per dimostrare tutto il suo talento, pure da comprimario, ciò che contava era quella maglia bianconera che pregustava già ai tempi di Reggio.

Il primo anno? Complicato. Il cammino in bianconero non è stato mai in discesa, ma c’è un evento che segnerà per sempre due carriere: la sua e quella di Alex Del Piero.

“L’infortunio di Baggio ci ha favorito – il racconto a Repubblica – Perché era proprio il momento in cui stavamo esplodendo e abbiamo potuto giocare senza apprensioni. Ma i miei meriti non sempre sono stati riconosciuti, e la cosa mi ha seccato, mi ha pure stupito. Basta per favore con la vecchia storia che sono solo un operaio: quando segnavo io tutti a storcere il naso, come se fosse stato sempre tutto casuale. Non per presunzione: ma io in allenamento non mi sentivo inferiore a nessuno…”.

Ed era vero, assolutamente vero. Fabrizio non era lì (solo) per i polmoni, ma anche per la tecnica, affinata sin dagli inizi con Trapattoni. A proposito: sapete cosa gli diceva sempre il Trap? “C’è chi nasce per fare l’architetto, chi per fare il geometra e chi per fare il muratore”. Ecco, Ravanelli, pagato 3 miliardi di lire nell’anno in cui si spesero 30 miliardi per Vialli, 13 per Platt, 6 e mezzo per Dino Baggio e 3 e mezzo per Moller, era dell’ultima categoria. E nel biennio trapattoniano, dal 1992 al 1994 si accontentò di dare il suo contributo, spesso subentrando a Paolo Di Canio.

Gli anni d’oro

Nel primo anno, Ravanelli segnò 9 gol in 33 presenze; furono 12 invece le reti in 38 gare totali. Non convinse immediatamente i tifosi più scettici, ma una grande verità del calcio non s’è mai smentita: lavorare paga, paga tantissimo.

E allora, eccoci al 7 marzo del 1993: prima da titolare e un gol decisivo nel 4-3 sul Napoli. Apoteosi ed esultanza mascherata, la prima. Proprio mentre reclamava a gran voce un posto da protagonista, la Juve subì la grande rivoluzione: via tutti, in panchina Lippi con Moggi e Giraudo dirigenti. E il tecnico viareggino ebbe subito in mente il ruolo per Penna Bianca: dentro con la classe di Baggio o Del Piero e i gol di Luca Vialli. A patto che però fossero i primi a difendere. Detto, fatto. Ravanelli non si è mai tirato indietro.

Diventò così “l’uomo ovunque”, come ribattezzato dall’Avvocato Agnelli. Ravanelli ottenne finalmente considerazione, meriti e nazionale. Sacchi lo convocò contro l’Estonia e il debutto fu addirittura con gol. Nel secondo anno della gestione Lippi, dopo aver già vinto uno scudetto mai scontato, arrivò a siglare 17 reti in 36 presenze, di questi 4 in Champions League.

È l’anno della consacrazione internazionale, è l’anno delle partite da capitano, è l’anno del dodicesimo posto nella classifica per il Pallone d’Oro. È l’anno della Champions, soprattutto. Della finale di Roma e del gol contro l’Ajax da posizione impossibile. “Avevo notato che i due fratelli De Boer spesso erano leggerini, per non dire presuntuosi, quando giocavano con il portiere. Me lo sono ricordato quando vidi quel pallone in area. Con la suola del sinistro me lo sono portato avanti e ho calciato con il destro. La porta era strettissima. Silooy tentò un salvataggio in scivolata, ma non servì…”, il suo racconto.

Dalla Juve non sarebbe mai andato via, Fabrizio, innamorato com’era. Ma il tempo è tiranno. E dopo una vittoria, alla Juve si pensa sempre alla successiva. Nella nuova rivoluzione tecnica bianconera, fu la società a decidere la fine del suo ciclo: incredulo, Ravanelli accettò la proposta del Middlesborugh in Premier League. “Fu una pugnalata”, le parole di Ravanelli, sentitosi tradito. Del resto, non aveva ancora trent’anni, avrebbe potuto dare ancora tanto. E lo dimostrò in Inghilterra: portando la squadra in finale di FA Cup e di League CUP, ma con un finale di stagione impossibile da digerire. 31 gol in 48 presenze per Ravanelli, che passò al Marsiglia (due stagioni) e tornò in Italia con la Lazio. Per la rivincita finale.

L’ultimo acuto

Con Dugarry e Maurice, a Marsiglia, aveva formato un altro tridente delle meraviglie: sfiorarono la vittoria in Ligue1 e arrivarono anche in finale di Coppa Uefa (che saltò per squalifica). Ma la nostalgia italiana era forte e l’occasione biancoceleste semplicemente irripetibile. Fu un ritorno al passato, a quelle comparsate da uomo in più: stavolta non fu un peso, anzi fu una dolce vendetta. Perché con i biancocelesti riuscirà a fare la storia, raggiungendo lo scudetto dopo ventisei anni di astinenza e approfittando della sfida del destino tra Perugia e Juventus. Un caso particolarissimo, che portò Ravanelli a un trionfo insperato.

Nell’anno successivo fu messo però ai margini della rosa e allora decise di tornare in Gran Bretagna, per un’ultima esperienza di vita e formazione: fu il Derby County a dargli un’occasione, ma il tempo delle rincorse era ormai finito. E il tragitto si chiuse dopo un anno e mezzo, con una retrocessione. Ecco, qui Fabrizio sapeva, forse l’aveva sempre saputo, che l’unico modo in cui avrebbe potuto chiudere i conti con la sua parabola sarebbe stato solo tornare al punto di partenza. E allora, in quel gennaio del 2004, dopo aver fatto una promessa al padre scomparso da poco, tornò a casa. Colmo di orgoglio per la sua storia e colmo di speranza per riportare la maglia del Grifone più in alto possibile.

Ma Perugia era in difficoltà e neanche il suo passato glorioso avrebbe potuto salvarlo. Ravanelli, al quale fu richiesto addirittura di allenare subito, riuscì però a dare una sterzata decisiva alla stagione, fino ad arrivare allo spareggio interdivisionale con la Fiorentina: fu sconfitta e fu delusione. E dopo la retrocessione, arrivò l’anno in B, con i guai finanziari e la ripartenza dalla C. Fabrizio, a 36 anni, inizierà un’altra corsa a perdifiato: per diventare allenatore di livello.