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È stato un’icona. Un giocatore profondamente differente. Un Pitbull del centrocampo – e quanto amava quel soprannome – però dai piedi sopraffini, dalla tecnica importante. Edgar Davids, nato il 13 marzo in Paramaribo, Suriname, che senza di lui probabilmente neanche sapremmo dove si trovi, è stato uno di quei calciatori che hanno segnato e conservato allo stesso tempo un’era calcistica irripetibile. Con un talento smisurato per il recupero palla, con un modo di giocare che saltava le generazioni: perché duro, diretto, da far infuocare gli spalti.

Pensate un po’: prima di lui e Clarence Seedorf, il Suriname aveva ben poco da celebrare. Nel giro di pochi anni, è cambiato sostanzialmente tutto. Da bambino, emigrò in Olanda con la sua famiglia: si stabilirono ad Amsterdam, dove diede i primi calci a un pallone. Direttamente nell’Ajax, dapprima scuola calcio, poi vere e competitive giovanili. Vi debuttò nel 1991, in una squadra semplicemente stratosferica. Da lì partì la scalata verso il mondo. Sempre palla al piede.

Una carriera fantastica

Sempre palla al piede e con una maglia pesantissima. Ha giocato in alcune delle principali squadre del continente, Edgar. Barcellona, Juve, Ajax, Tottenham. In Italia è passato persino da Milan e Inter, sebbene non fosse sempre al top, specialmente negli ultimi anni. Lancieri e bianconeri sono stati i guizzi di un destino fortunato, neanche mezza volta immeritato: la grandezza di Davids era rendere il contorno tanto importante quanto la sostanza. Era uno dei giocatori più apprezzati dalle varie tifoserie, e questo perché aveva garra, aveva dedizione, aveva quello sguardo di chi scende in arena e non in campo. Giocava ogni gara come se fosse stata l’ultima della sua vita. Lasciandovi l’anima.

Poi, sapeva come vincere. Già da ragazzo, all’Ajax, l’olandese aveva portato a casa praticamente tutto: tre campionati, due coppe nazionali, una Supercoppa e 1 Coppa Uefa. Arrivò a vincere anche una Champions League, l’Intercontinentale e una Supercoppa Europea. Dopo un bottino così, la meravigliosa generazione dei primi anni Novanta si sciolse inspiegabilmente. Il Pitbull decise di emigrare, ancora. Ma stavolta per motivi profondamente diversi.

Si presenta il Milan, che pure avrebbe avuto estremo bisogno di un giocatore del genere. Ma la fortuna di Edgar inizierà a girare qualche chilometro più a ovest, a Torino, dove Luciano Moggi è intelligente nel fiondarsi tra le crepe di una storia che non era mai sbocciata. L’allora direttore generale dei bianconeri si presentò direttamente a Milano con nove miliardi di lire: poche ore dopo, Edgar è su un’auto che lo trasporta al centro sportivo juventino.

Tantissimi ‘alti’, al Delle Alpi, come la vittoria di tre campionati di Serie A e le finali di Champions del 1998 e del 2003. Però pure una caduta che farà per sempre parecchio rumore: il 21 aprile del 2001, viene riscontrata la sua positività al nandrolone, steroide anabolizzante che deriva dal testosterone. Riceverà una squalifica di quattro mesi. Pesante.

L’altro Davids

Lascerà scorie, inevitabilmente. Lascerà un po’ di nervosismo, nonostante la vicinanza stoica della società. Dopo l’anno dell’apparente riconciliazione, Davids a inizio 2004 rompe quasi all’improvviso: ci sono dissidi con Marcello Lippi, e sono impossibili da risanare. La Juve lo cede in prestito al Barcellona, dove l’olandese dimostra ancora di che pasta sia fatto. Svincolatosi a fine annata, l’Inter tenta il colpo gobbo, riempiendo solo le pagine dei giornali. In bacheca finisce una Coppa Italia e non di certo per merito dell’olandese.

No, Davids non è più quello di prima. E ci ricasca: dopo Lippi, la lite furiosa arriva pure con Roberto Mancini, che lo relega lontano dal gruppo in un finale di stagione decisamente amaro. Per tutti. Nel 2005 finisce al Tottenham, un anno e mezzo prima di esaudire il vero e ultimo desiderio, il gran finale di una storia stellare: Davids torna all’Ajax ed è un fiume in piena di intenzioni. Proprio quando il destino decide di rincarare la dose: in un’amichevole estiva disputata contro gli Eagles, si rompe la tibia e resta fuori per sei mesi. Ritornerà nella seconda parte di stagione, ma le poche prestazioni sanno di condanna: niente rinnovo.

L’Ajax non prolunga, Edgar ha però ancora intenzione di giocare: ci prova con il Vitesse, ma chiede tanto e non si chiude il passaggio. Dopo due anni di soli allenamenti, gli dà una chance il Crystal Palace, in Championship: dopo 7 partite, finirà nel peggiore dei modi. Anzi: inizierà un’altra piccola, grandiosa avventura. Inizierà ad allenare il Barnet con Mark Robson.

Dall’altra parte

“Un’annata pazza come poche”, il riassunto – tra le risate generali – di qualsiasi tifoso del Barnet in riferimento a quell’annata lì, al 2012 che entrava ben presto nel 2013. Davids iniziò da giocatore, finì per fare l’allenatore: nel mentre, fu entrambe le cose. A 39 anni, con un bipolarismo ormai accertato, Edgar entrava spesso alla ripresa e lo faceva sempre male. Prova definitiva l’andamento che ebbe il Barnet, retrocesso all’ultima giornata nonostante i tentativi dell’olandese da una parte e dall’altra.

Anzi: arrivarono ad apprezzarne l’umiltà. Perché il Barnet, costretto a ripartire dalla National League, ossia dalla quinta divisione del calcio inglese, si affidò proprio all’ex Juve. Il quale, di tutta risposta, si autoannunciò capitano del gruppo e affiancò alle parole immediatamente una prova concreta: sulle spalle, scelse il numero uno. Sì, il numero uno.

La mossa colse tutti di sorpresa: nessuno sapeva come interpretarla. Anche se il protagonista la giustificava come un modo di caricare la pressione e lasciare libera la rosa, alcuni iniziarono a sospettare che quel Davids calmo ed esemplare della prima stagione, stava per crollare sotto i colpi delle sue stesse promesse.

Ecco, avevano ragione: dopo otto incontri disputati in stagione, da settembre a dicembre, finì espulso in ben 3 partite.

E così si concluse, la grande traversata dell’olandese volante. Un giocatore incredibile, con temperamento d’annata. Pure troppo, alle volte.