Vai al contenuto

C’era, nell’aria, una voglia incredibile di lasciare il segno. Di tornare, in modo anche un po’ prepotente, nella storia del calcio italiano.

Mai come agli inizi degli anni Novanta, Cagliari sembrava di nuovo un’isola felice: l’entusiasmo l’aveva riportato Carletto Mazzone, che non era uomo di mare ma è sempre stato uomo e basta, nei modi e negli approcci, tra bastoni e carote. Aveva trovato un sostegno perfetto da un popolo che solo all’apparenza sembrava brusco e chiuso, proprio come lui. E che proprio come lui dentro sapeva rivelarsi gioioso e scanzonato.

Solo il richiamo di casa poteva essere più forte di quello delle sirene e del mare sardo. A fine stagione, dopo una storica e meritata qualificazione in Coppa Uefa, la Roma decide di convocare Mazzone: ovviamente, la passione gli impose l’addio. E Cellino lo abbracciò come andasse via un fratello. Allo stesso tempo imponendosi il regime di Gigi Radice come condizione necessaria per fare la storia.

Il Sergente di Ferro

Ora: come si fa a spiegarlo, Gigi Radice? Un brianzolo con quarant’anni di calcio ad alti livelli sulle spalle, che arriva in un cumulo di adrenalina e prova a stigmatizzarla come può. Banalmente, a dare ordine, a infondere una ricerca – quasi scellerata – di disciplina e pacatezza. Radice era un comandante, che se non avesse fatto il calciatore sarebbe stato probabilmente capitano o generale di qualsivoglia forza armata. Vigeva l’ordine, nel suo spogliatoio; amava comandare su tutto e tutti, come uomo d’altri tempi.

Ne convenne che il rapporto con Cellino fu subito complicato. Alla prima giornata, ecco la brutta sconfitta con l’Atalanta e l’immediato esonero: al suo posto c’è Bruno Giorgi. Pronto a dividersi il triplo impegno, ma soprattutto ad accontentare le bizze dell’imprenditore oggi patron del Brescia. Senza badare al sottile, ma esclusivamente alla sostanza, Giorgi inventò subito un nuovo Cagliari per affrontare la Dinamo Bucarest. All’andata è quasi un tonfo: 3-2 per i rumeni. Al ritorno, risultato ribaltato con i gol di Matteoli e Oliveira.

Insomma, un po’ di spavento ma anche nuove consapevolezze. Tali da affrontare il continuo del torneo con almeno un briciolo di fiducia in più, ignari di cosa e dove il percorso potesse portare. Al secondo turno, Giorgi dovette subito ricorrere alle armi pesanti: c’era il Trabzonspor. Una montagna tutta da scalare, specialmente per questioni ambientali: all’andata, partita strana con Dely Valdes (panamense e “grande acquisto” dell’ultimo mercato) riuscì a pareggiare l’iniziale vantaggio dei turchi. Risultato fondamentale: al ritorno fu solo 0-0. Però furono anche ottavi di finale.

Scontro al vertice

L’urna fu benevola: il Cagliari incontrò una grande del calcio europeo, però caduta in disgrazia. Ricordate i fasti del Malines? Ecco, dimenticateli un attimo dopo: i rossoblù li spazzarono via tra andata e ritorno, a segno anche Max Allegri, metronomo di quella squadra che con Giorgi iniziava a vedere la luce dal punto di vista del gioco. Ai quarti, ecco, il sospiro di sollievo si fece affanno di tensione. Toccava affrontare la Juventus. E che Juventus: quella di Roberto Baggio e del Trapattoni bis.

Il primo marzo del 1994, la storia si fa rossa e poi blu. Al 60′, ancora Dely Valdes infila la zampata vincente: la Juve proverà fino alla fine a ribaltare il risultato, quantomeno a contenerlo. Niente. E’ trionfo ed è gioia per le strade, è la consacrazione definitiva di una squadra che aveva saputo ritrovare un’identità precisa. Giorgi, celebrato da tutti, guardava tuttavia il calendario. Nervosamente e ogni santo giorno. Sapeva che la sfida di Torino avrebbe avuto i connotati dell’impresa: i bianconeri potevano avere una battuta d’arresto, ma non avrebbero mollato un centimetro dopo lo schiaffo del Sant’Elia.

E così fu. Al ritorno, la squadra del Trap impose subito ritmi incredibili. Al 22′, il sigillo di Dino Baggio a pareggiare le ostilità; 10 minuti più tardi, Matteoli serve Firicano e Peruzzi quasi inconsapevolmente si trova la palla alle sue spalle, è 1-1. Alla Juve servono ora due reti per passare, e il baricentro si alza, e le maglie sono larghissime. Il Cagliari, sulle ali dell’entusiasmo, non può non approfittarne: contropiede perfetto di Oliveira, che chiude i conti sul 2-1. Meraviglia.

A un passo dal sogno

Le semifinali sono una scarica di adrenalina fortissima: aver battuto la Juventus dà una nuova dimensione ai sardi, ora non più outsiders ma a testa alta e coi sogni stesi al sole. Davanti, stavolta, altra squadra ben conosciuta: c’è l’Inter di Bergkamp.

Ribaltata subito nella gara d’andata: al vantaggio di Fontolan, risponde ancora Oliveira. All’1-2 di Ruben Sosa, controbattono Criniti e Pancaro. 3-2 e testa altissima verso San Siro.

La finale era davvero a un passo. Bastava emulare quanto fatto al Delle Alpi, magari stringere ancor di più le maglie della difesa. E pregare. Inevitabilmente, pregare. Perché quell’Inter era forte, troppo forte. E senza la spinta del suo popolo, il Cagliari si smarrì sulla parte più impervia del cammino: segnò Berti, continuò Bergkamp, chiuse Jonk. 3-0.

A un passo dal sogno, Giorgi dovette abbandonare il suo sogno, lasciando il Cagliari al dodicesimo posto in campionato: lì sì, un punto sopra i nerazzurri, alle prese con una delle stagioni più anonime della sua storia. Almeno fino al confine italiano.