Vai al contenuto

Qualcosa di misterioso e terribile lega il Torino alla disfatta.

C’è quella storica e quella sportiva, c’è quella esistenziale e quella calcistica. Si potrebbe senza dubbio protestare contro questo modo di vedere le cose, come se il calcio e lo sport fossero il centro stesso delle nostre vite. Non è così. Ma per uno sportivo, lo sport è la stessa esistenza. Per un calciatore, meglio per un tifoso, per un calciofilo autentico, il calcio non è un momento della propria vita, ma il plasma e il magma del proprio essere.

Un filo rosso Granata

Cosa c’entra tutto questo col Toro? Lo avrete già capito. È il destino del Grande Torino, è quello del Torino di Mondonico targato 1992. In entrambi i casi, una disfatta. Nel primo caso, il silenzio ci viene alle parole meglio di ogni verbo. Perché la tragedia è di vite, poi sportiva. Ma è anche sportiva, perché riguarda tante vite di grandi sportivi.

Nel secondo caso, quello che ci interessa oggi da vicino, riguarda invece una disfatta “solo” sportiva, dunque esistenziale. Disfatta, già. Siamo forse i primi a parlare così, con una durezza senza dubbio eccessiva, perché il Torino di Mondonico in realtà fu solo sfortunato. Ma questa sfortuna non può ridursi a malasorte, perché quel Torino fu davvero una grande squadra. Quella cavalcata europea fu davvero una grande storia. E ridurne il risultato finale a “sfortuna” equivale a deprimerne il senso più profondo, a sminuirne la portata epocale. Ripercorriamo insieme questo cammino per goderne appieno, anche e soprattutto conoscendone già l’esito, meglio il verdetto, finale.

Quel Torino, allenato da Mondonico – quello della celebre “sedia” tanto per intenderci – arriva all’appuntamento con la stagione calcistica 1991/92 dopo quattro stagioni davvero incredibili nella loro contraddittorietà.

Nel 1987/88 il Torino raggiunge la finale di Coppa Italia, la stagione seguente retrocede in Serie B ma nel 1990 risale immediatamente in massima divisione, ottenendo un ottimo quinto posto nel 1991, ciò che gli permette di tornare sul palcoscenico europeo.

Qualche nome di quella rosa: Marchegiani tra i pali, un giovanissimo Luca Marchegiani. Fusi e Scifo, Vazquez e Cravero, Gianluigi Lentini – uno che, acquistato dal Milan per fior di quattrini, deluderà prima se stesso e poi i tifosi rossoneri –, Casagrande, soprattutto Walter Casagrande. Dopo il fallito tentativo di democrazia corinthiana con Socrates capitano nel 1983, il brasiliano segue il Dottore in Italia. Questo farà ritorno in Brasile prima del previsto, quello rimarrà al Torino dopo l’esperienza all’Ascoli di Costantino Rozzi e, nel corso della stagione 1991/92, si dimostrerà autentico fuoriclasse, in campionato come in Coppa Uefa.

La campagna europea

Il primo ostacolo per i granata è rappresentato dal KR Reykjavik, piegato per 2-0 all’andata e addirittura per 6-1 al ritorno in Piemonte, dinnanzi al pubblico del Delle Alpi. Il secondo turno offre un’insidia ben più paurosa che risponde al nome del Boavista, squadra portoghese che ha appena eliminato i campioni in carica dell’Inter.

I ragazzi di Mondonico non si lasciano tuttavia ingolosire dalla paura, aggredendola fin dall’andata, dove un 2-0 in casa stende i lusitani. Lo 0-0 di quindici giorni più tardi non fa che confermare un verdetto soltanto sussurrato sottovoce dal popolo granata: il Torino c’è.

Dopo la lunga pausa invernale, arriva l’AEK Atene. La rude squadra ateniese, figlia di turchi fuggiti in Grecia all’inizio del Novecento, complica e non poco la vita ai nostri uomini. 2-2 in terra ellenica, solo 1-0 in casa del Torino. Ma è quanto basta per accedere ad uno (già storico) passaggio del turno ai quarti di finale.

Questo Toro sembra avere tutto per vincere. Nella stessa frazione di tempo batte infatti anche la Juventus per 2-0 in un derby dominato dai granata, dimostrandosi squadra forte prima tecnicamente e solo poi mentalmente, altro che cenerentola insomma.

Siamo vicinissimi al traguardo, e più ci si avvicina più ci si brucia. Il BK 1903 Copenaghen, antica genitrice dell’attuale FC Copenaghen, nato dalla fusione col KB, attende alla porta i granata. In terra danese arriva uno splendido 2-0, confermato dal ritorno fra le mura amiche col punteggio di 1-0. Il Torino è dunque in semifinale, ora il sogno è davvero a portata di mano.

Contro la nobiltà europea, a un passo dal trionfo

Il sorteggio, che potrebbe vederla contro un’altra italiana, il Genoa dei miracoli, padrone di Liverpool, dice Real Madrid. Un brivido di emozione e insieme di sconforto percorre la schiena dei tifosi granata, che sono però pronti a invadere il Bernabeu. Il Genoa dovrà vedersela con l’Ajax, invece.

Il Santiago Bernabeu non spaventa Mondonico e i suoi ragazzi, che partono fortissimi grazie ad una rete di Walter Junior Casagrande, lesto nell’approfittare di un errore del portiere spagnolo Buyo su un tiro-cross di Roberto Policano. Siamo al 58’. Il Bernabeu sembra il Delle Alpi, ma solo per 3’. Il pareggio di Hagi riporta il punteggio in parità e il raddoppio di Hierro 5’ più tardi assomiglia tanto al foro di una nave in mare aperto. Il Toro potrebbe affondare, ma tira su le corna chiudendo dignitosamente la partita.

Il ritorno è il 15 aprile del 1992. I sessantamila tifosi granata accorsi al Delle Alpi assistono ad una delle più memorabili prestazioni della storia del Toro. Il Real Madrid è letteralmente surclassato. Apre le danze l’autorete di Rocha al 7’, chiude Fusi al 76’, per un 2-0 che significa finale.

L’esito, purtroppo, o meglio il verdetto, come si diceva, non possono intaccare un cammino glorioso, spentosi proprio sul più bello.

Nella gara di andata del 29 aprile 1992 il Torino si trova costretto a recuperare (in casa e non senza colpa) due volte il risultato. 2-2 il punteggio finale, merito ancora una volta di una doppietta di Casagrande.

Il ritorno ad Amsterdam è epico. Il Torino ce la mette tutta, ma i suoi sforzi non fruttano altro che tre legni. Al 25’ Casagrande, al 74’ Mussi e all’89’, per la disperazione di un intero popolo, con una splendida girata di Sordo.

Sordo, nomen omen. Sordo come il destino, che ancora una volta ha voltato le spalle ad una squadra dalla gloria più grande dei propri (in)successi.