Vai al contenuto

Tredici anni. Divisi in due tornate di una bellezza, ricchezza, forza uniche nel loro genere. La Juve di Giovanni Trapattoni è incastrata nei ricordi di tutti perché ha segnato non solo un’epoca, ne ha sottoscritte almeno due.

La prima, 10 anni di fila dal 1976 al 1986, con l’ambizione di conquistare l’Europa e la solida tendenza a dominare in Italia; La seconda, più combattiva e più breve, parte nel 1991 dopo l’ascesa del Milan, in qualche modo da contrastare, bloccare, respingere. Terminerà solo quattro anni dopo, nel 1994 e all’alba del miglior periodo della storia bianconera.

Giuanin Trapattoni da Cusano Milanino

Nella vita può capitare davvero di tutto, ma quanto vissuto da Trapattoni non basterebbero tre esistenze per replicarlo. Prima della Juve, il suo grande amore è stato il Milan. Una passione fortissima, per Giuanin nato a Cusano, a nord di Milano. Tifoso rossonero da sempre, poi promessa delle giovanili, quindi certezza dell’undici rossonero. Dal ‘57 al ‘71 è il metronomo di San Siro, e chi lo vede non possiede neanche il beneficio del dubbio: per come gestisce i compagni, sarà un grande allenatore.

Da Milano, dal Milan, parte il paradosso della sua vita: se da giovane non aveva mai lasciato la Lombardia per amore (oltre ai rossoneri, un unico anno al Varese), Trapattoni sa che in panchina il mondo del calcio va al doppio della sua naturale velocità. Parte dai colori del suo cuore: inizia da collaboratore tecnico, poi una breve comparsata come capo dello staff nel 1974 (ad interim), dunque vice nel 1975 e l’occasione nella stagione successiva. Era il preferito di Nereo Rocco, allora direttore e plenipotenziario del club, il quale affidò Rivera e compagni al debuttante Trap. In cambio, un terzo posto non così scontato.

La Juve se ne accorse subito. Dell’empatia, dell’intelligenza. Soprattutto della visione nuova di quel giovane già maturo, con una vita passata a tenere a bada le pressioni. Boniperti è passato alla storia (anche) da dirigente per le grandi intuizioni, una di queste fu certamente l’ingaggio a sorpresa del Trap. “Mi conquistò con le sue idee chiare, con la sua concretezza“, la spicciola spiegazione in sede di presentazione. In realtà, alle spalle c’era una visione condivisa, il grandioso progetto di rinascita della Juventus. Un’onda gigantesca che Giuanin, dopo solo un anno di alti e bassi, padroneggiò con maestria da predestinato.

Il primo ciclo

Il primo ciclo coincise con il primo gesto: quello di portare con sé Romeo Benetti. Aveva quest’ambizione di rinforzare i bianconeri, di farlo proprio dal punto di vista fisico. Davanti, Boniperti gli regalò Boninsegna; poi il destino gli fece trovare un giovanissimo Cabrini solo da lanciare. Al primo anno fu scudetto, meraviglioso. Lo conquistò con una corsa pazzesca sul Torino, totalizzando 51 punti sui 60 disponibili. Anche in Europa arrivarono grossi sorrisi: nonostante le difficoltà patite nella gara d’andata al San Mamés, al ritorno la Signora dominò il Bilbao e portò a casa la prima coppa internazionale, la Coppa Uefa del ‘77.

Era un’armata, quella Juve. Piena di talento e di giovani (tanti avrebbero fatto la fortuna di Bearzot nella Nazionale del 1982), di fame e ambizione. E il Trap era la guida perfetta: condivideva coi suoi ragazzi la stessa passione, e nonostante la sottile differenza d’età sapeva ergersi a sergente nei momenti complicati. Al secondo anno ancora scudetto, battendo il Vicenza di Paolo Rossi sul più bello; per pochissimo non arrivò la finale di Coppa Campioni, qui colpa del Bruges di Happel (segnatevi questo nome).

Preludio di grandi cose, ancora inespresse nel 1979 e nel 1980: complice anche la stanchezza post Mondiale, per lo zoccolo duro bianconero arrivò solo la Coppa Italia; un anno dopo, il vero scricchiolio del ciclo, un secondo posto incredibile dopo aver stazionato a lungo in zona retrocessione. La prima annata senza trofei.

Sembrava la fine di tutto, eppure il Trap riuscì a resistere. A ricostruire. A dare nuova forma alla sua squadra, di certo più fame. Nel 1980, il calcio italiano riaprì le frontiere agli stranieri: dall’Arsenal, Boniperti scelse l’irlandese Brady, a cui il Trap donò la maglia numero 10. Scelta giusta: in due stagioni, due scudetti per i bianconeri, trascinati proprio dal suo fantasista. Poi… poi Platini.

Con Le Roi

Michel di Joeuf, piccola cittadina nel nord est francese, non era solo classe: era meravigliosa, leggiadra, instancabile sostanza. Il Trap lo volle istantaneamente al centro della sua Juve, a girargli intorno la corsa e il talento di Zibi Boniek. Tornò anche Paolo Rossi, dopo due anni di squalifica per il calcioscommesse: con i due, Pablito formò uno dei tridenti più forti della storia del calcio.

Due scudetti e una squadra praticamente ribaltata dalla cintola in su, difesa solida e italiana, centrocampo di quantità e guizzi. Cosa poteva andare storto? Nulla. Almeno non in Italia. Nel 1983, finale di Coppa Campioni contro l’Amburgo: una doccia gelata, una delusione tremenda firmata ancora Happel, passato nel frattempo ai tedeschi. Trapattoni, distrutto, era a un passo dalle dimissioni. Fu decisivo Boniperti, ancora una volta, e la vittoria in Coppa Italia contro il Verona aiutò.

Platini, come un diesel, riaccese a poco a poco i sogni di gloria della Juventus. Libero dai problemi fisici, regalò il ventunesimo scudetto e la Coppa delle Coppe in un’annata spaziale da 20 reti. Ne 1985 era invece chiaro a tutti che la Juve avrebbe puntato quasi esclusivamente sul cammino europeo. E se in Italia la favola Verona fu troppo bella per essere contrastata, la Coppa sapeva scorrere liscia. Almeno fino all’epilogo: surreale, angosciante, per sempre doloroso. Nella finale del 29 maggio all’Heysel di Bruxelles, la Juve vincerà la sua prima Coppa Campioni; negli incidenti che precedettero il fischio d’inizio, la follia hooligan portò alla morte di 39 tifosi.

Uno strazio che colpì la squadra, i tifosi, il mondo del calcio intero. I bianconeri si chiusero nel proprio dolore in quei giorni mai di festa, il tecnico in testa. Nell’ultima stagione del suo Decennio d’Oro, Trapattoni vinse la Coppa Intercontinentale: a Tokyo, contro l’Argentinos Juniors, diventò il primo allenatore in grado di conquistare le maggiori competizioni confederali per club.

Un’altra storia

Lasciò la Juve dopo 10 stagioni e 13 trofei, e la separazione fu quasi naturale. Dall’altra parte del telefono, Berlusconi e Pellegrini, rispettivamente patron di Milan e Inter, se lo contendevano come il più forte dei numeri dieci. Vinse il secondo, e fu in qualche modo storia. E la Juve? Provò a resistere, a guardare avanti, a riportare la squadra sui giusti binari. Dopo la fallimentare annata di Gigi Maifredi, nella stagione 1991-1992 il Trap fu nuovamente chiamato da Boniperti: accettò per un moto d’amore. La scossa fu praticamente immediata: secondo posto in campionato (Capello vinse da imbattuto con il Milan) e finale di Coppa Italia. Un inizio, ecco. Incoraggiante.

Nella seconda stagione, arrivarono i rinforzi giusti: Moller, Vialli e Ravanelli già decisivi per la vittoria in Coppa Uefa, dove i bianconeri furono trascinati dal talento di Roberto Baggio. Tanti gol e una certezza: se bilanciata bene a centrocampo, questa squadra avrebbe dato grandiose soddisfazioni.

Non ebbe il tempo giusto, Trapattoni. O forse la giusta fiducia da parte della dirigenza. Nell’ultima stagione alla Juve, Giuanin lanciò prima Di Livio, soprattutto diede spazio al giovanissimo Del Piero. Gettò le basi per la storia, forse sconfessando il suo credo offensivista per raccogliere più solidità difensiva. Per tanti, il cambio di direzione gli costò la panchina. Con lui, lo storico addio di Giampiero Boniperti chiuse il tempo delle sensazioni e spalancò quello delle certezze: la ‘vecchia Juventus’ necessitava una svolta. Firmata Marcello Lippi.