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L’ultimo ricordo, per una volta non attorniato dal dolore, è arrivato nel cuore di Reggio Calabria.

È che lì ci ha passato una vita, il Professore.

Partito da quaranta chilometri più in là – Gioia Tauro – e risalito fino a Udine, guardando dall’alto al basso l’Italia intera, professandone le gioie e le delusioni, costruendo squadre e sogni, comprendendone ogni singolo stato d’animo.

Del resto, chi meglio di Francesco Scoglio, detto Franco, nato a Lipari nella metà del 1941? Chi meglio del “laureato” – il diploma c’era, e in Pedagogia – con quel talento per il calcio, prima giocato e poi inteso? Pochi, o più probabilmente nessuno. Perché quanto fatto da Scoglio è difficile da realizzare in tre vite, figurarsi in un’unica e troppo breve esistenza.

Partiamo dal principio, in ogni caso. Cioè dalle prime gioie con il pallone sotto al braccio. Da calciatore, Franco Scoglio aveva il dominio del campo e delle sue situazioni: iniziò difensore, divenne mediano di sostanza. Prometteva un gran bene che la Tevere Roma, squadra satellite dei ‘veri’ giallorossi’ e fucina di talenti incredibili, lo portò con sé ad appena vent’anni.

Di quel periodo si ha notizia di una sola stagione, partita nel 1963 e terminata nel 1964. Poi arrivò certamente l’esperienza a Palmi, la prima volta in Calabria che si unisce come meraviglioso gioco del destino all’ultima volta in cui il pubblico ha ascoltato, ricordato, sorriso per il nome del celebre allenatore.

Il 20 luglio del 2020, la vecchia Via Stadio a Monte di Reggio è diventata via Franco Scoglio, procurando una traccia eterna nel presente e nel passato di ogni reggino.

Una lunga storia d’amore

Il mio calcio è fatto così: 47 per cento di tecnica, 30 per cento di condizione fisica, 23 per cento di psicologia.

Franco Scoglio

Calabria nel cuore, dunque. Ma la Liguria, e Genova, il posto al sole per scatenare la leggenda. Sì, perché quelle poche e sfortunate annate da calciatore furono quasi uno scotto necessario, di certo benzina per le ambizioni del Franco trentenne che si avvicinava al bordo del campo senza più pensare a correre e star dietro ai tempi, ma solo a creare, a disporre, a mettere insieme, tassello dopo tassello, una filosofia calcistica che potesse in qualche modo cambiare la storia della provincia e renderla entusiasmante. Anche solo per tutto l’affetto che da quelle parti non è mai mancato.

Dunque, partire dallo Stretto per allargarsi fino all’orizzonte. Dal ’71 in poi è una squadra dopo l’altra: trascina la Gioiese all’Interregionale e lo prende subito la Reggina, quindi ancora la Gioiese per provare a superare le barricate (anche economiche) da piccola realtà.

Celebre, meravigliosa, la frase di Scoglio al suo ritorno a Gioia Tauro: “Gli allenatori vanno e vengono, Scoglio ritorna“. Nel ’74, ecco finalmente il professionismo: a soli 33 anni, il Professore allena in Serie C e soprattutto torna a Messina, cioè a casa. Un’annata particolare, quella: alti, bassi, problemi interni difficili da risolvere. E un sesto posto che sconvolge i piani di promozione, lasciando alla dirigenza la decisione di separarsi lì, prima di farsi davvero male.

Tornerà, Scoglio. Pure lì e appena qualche anno dopo. Prima c’è ancora la Gioiese, poi l’Acireale, dunque lo Spezia e infine la Reggina.

I quaranta son l’età giusta per stupire: e il suo è un calcio spettacolare, che in Serie A non hanno mai visto se non nelle super potenze del nord. È una lotta sociale, la sua. Con pochi mezzi e tanta inventiva, senza però peccare di tracotanza.

Tra le mani, oro grezzo: ed è lui a trasformare Totò Schillaci nel diamante che l’Italia intera amerà per sempre. Nel 1986, è promozione in Serie B: Totò, ventiduenne, ne mise 11. Insieme superarono ogni ostacolo.

Da Messina a Genova

Io non faccio poesia. Io verticalizzo

Franco Scoglio

Altre quattro stagioni, lì in Sicilia. Fino all’Ottantotto. Finché ne ha avuto. Finché ha portato a casa due salvezze (di cui una parecchio sofferta) e poi la simpatia di un paese intero che non vedeva l’ora di star lì, ad ascoltare le sue massime e la sua candida naturalezza.

Per dirne una: sapete come chiamava i giocatori che allenava? “I suoi bastardi“. E quel gioco rapido e spesso fatto di istanti giusto? “Niente poesia, io verticalizzo“. Personaggio dentro e fuori dal campo: una manna per la stampa italiana, che attorno al suo credo si riuniva andando oltre il volto guascone e qualche strafalcione di troppo. Il mito, ovviamente, nacque all’ombra di Marassi.

Alt, anche qui: va contestualizzato mondo, calcio e squadra. Quel Genoa, sotto la guida di Aldo Spinelli, per anni ha vissuto sotto l’ombra di Mantovani e di una Sampdoria che sembrava in espansione infinita. Futura e primissima stella polare del campionato più bello del mondo.

L’attuale patron del Livorno prese il Grifo in B, senza però smuoverlo più di tanto. Chiamò maestri come Burgnich, come Gigi Simoni: Scoglio era una scommessa ragionata, alla base tuttavia poco raccolto di fiducia e consensi. Come in ogni grande storia, il plot twist si fa di ingenua incredulità.

Il Professore, per blasone e potenziale, un’armata così non l’ha mai guidata. Il tifo è leggendario, quei cinquemila della Gradinata sono con lui ogni domenica: “Me li ricordo tutti – un’altra celebre massima -, cioè non i nomi, ma i volti sì”. È un tutt’uno. Ed è trionfo.

Il rombo, il vertice basso, la pressione costante sugli avversari. Scoglio è il precursore di un modo di giocare che diventerà abitudine soltanto dopo diversi anni. Eppure, nel boom degli anni Novanta, quel Genoa sapeva sfruttare ampiezza e giocatori. Un talento su tutti: quello di Gianluca Signorini, rifugiatosi in rossoblù dopo una stagione in chiaroscuro a Roma. Ne fece il suo regista, il Professore. E seppe dispensare bellezza infinita.

La Serie A

Morirò parlando del Genoa.

Franco Scoglio

La squadra era pazzesca. C’erano Eranio e Ruotolo, Vincenzo Torrente e Marco Nappi. La Serie A, raggiunta subito nel 1989 aveva l’aria di passo epocale: era ovviamente solo l’inizio. Ruben Paz, Perdomo e Aguilera i regali impacchettati da Spinelli; a Genova tirava un’aria mai sentita prima e la brezza di mare cantata da De André c’entrava parecchio relativamente: è il vento del derby dai tratti biblici, Davide in rosso e blù, Golia in blucerchiato.

Il primo va a Boskov, con tanto di duello dialettico a distanza (“La Coppa Italia vinta dalla Samp? Come la Coppa del Nonno…”); il girone di ritorno è un fiume in piena di punti dopo prestazioni di livello assoluto, contro il Napoli campione e con squadre come Milan e Juventus. Alla fine? Undicesimo. E a lui pensano proprio i bianconeri, sebbene la firma arrivi con il Bologna. Al Dall’Ara, sei giornate e una sola vittoria. Finisce malissimo.

Genova è Genova. Quell’affetto pazzesco non andrà mai via dai suoi ricordi e dal suo cuore. Anche per questo, nel 1993, quando Spinelli lo richiama in fretta e furia, lui è già sul treno giusto per raggiungere Pegli. Ha ancora un po’ di giocatori del suo gruppo storico, dall’altra parte della città c’è invece un totem come Eriksson: e il derby? 1-1 con gol finale di Jugovic dopo il vantaggio di Vink. Nella stagione successiva, ancora una volta le prime sei giornate sono devastanti: esonero immediato. Retrocessione a fine anno.

Così, il viandante della panchina, quel tipo di “allenatore di strada, un po’ prostituta, che si arrangia” (parole sue, of course) si ritrova a Torino, a prendere il posto di Nedo Sonetti.

Dura pochi mesi nel grigio dei granata, e non fa fatica ad accettare il caldo della Tunisia e della selezione nazionale. Sembra l’ultimo paragrafo di una storia dai mille capitoli e pochi punti esclamativi.

Alla fine? Ancora Genova, ancora il Genoa, che è “della sua gente e di nessun altro”. Arriva a marzo, un mese dopo c’è la stracittadina con la Samp allora di Cagni: Mutarelli gol, poi Carparelli. 2-0 sotto la Sud e Scoglio che corre sotto la curva opposta, pugno chiuso ed emozione massima.

Pasquale Luiso che lo rincorre – e chissà cos’accadde in quegli spogliatoi – resta una delle immagini più genuine di un calcio che ovviamente non esiste più. Il Prof, all’ultimo, l’ha sfangata di rabbia, prepotenza e gioco. Dedicandola per sempre alla sua gente.

“Morirò parlando di Genoa”, ammise con quel solito candore. Così fu, in uno studio televisivo, all’improvviso e per un attacco di quel cuore pazzo per il Grifone.

Poco da dire: certe storie hanno il destino abbottonato addosso. Il suo aveva dei colori ben definiti.