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Nascere nel quartiere di CEP – San Giovanni Apostolo –, a Palermo, significa lavorare e giocare per strada al gioco del pallone. Un’esistenza ripetitiva, magari anche serena per un fanciullo, ma disgraziatamente segnata per un ragazzo che vuole diventare adulto.

Questa è la prospettiva di vita che fino a 17/18 anni contraddistingue l’esistenza di Salvatore Schillaci, noto come Totò. Un nome che più siciliano non si può, per un ragazzo che fin dalla prima infanzia già si rende conto di essere profeta in patria.

Non è Palermo la via di Damasco della sua vita, ma il calcio in generale, dal Sud di Messina al Nord di Torino, passando per l’intero amore della Penisola durante un Mondiale senza eguali, nostalgico per eccellenza, concludendo poi in Giappone, nell’estremo Oriente del mondo.

Campione di volontà

Si dà una scadenza, Totò. Il lavoro manuale col babbo, figura fondamentale, aiuta la famiglia a racimolare qualche soldo in più. Ci sono cinque bocche da sfamare e il papà, muratore, gli chiede una mano consistente: Totò fa il gommista, però, e non il muratore.

“Da noi, per emergere, devi avere la fortuna che qualcuno venga a scovarti. Non ci sono scuole calcio, i club investono poco nel settore giovanile. Ho conosciuto tanti ragazzi che potenzialmente sarebbero stati dei talenti e che si sono scoraggiati. Io ce l’ho fatta perché ho avuto il coraggio, magari l’incoscienza, di puntare tutto sul calcio: dopo un anno e mezzo che aggiustavo le gomme, e dopo, sfinito, mi andavo ad allenare, ho deciso che dovevo scegliere. E ho scelto il calcio, dandomi una scadenza. Se non avessi sfondato mi sarei rimesso a bottega”.

totò schillaci

Nei momenti liberi, tuttavia, riprende il pallone sotto al braccio, e ovunque si trovi, fuori dall’officina o per le vie strette e larghe ad un tempo della bella e profumata Palermo, tira due calci al pallone. Il talento di Schillaci è rimasto lo stesso da quando aveva 18 anni. Una grandissima abilità realizzativa, non solo a livello di intuito, ma di potenza. Celebri diverranno le sue girate in area di rigore, il carattere fulmineo, si direbbe quasi elettrico, delle sue capacità tecniche e di bomber di razza.

Il calcio inizia a notarlo a 18 anni. Schillaci gioca insieme a Carmelo Mancuso nella formazione dell’Amat. Il Palermo si presenta alla corte della piccola società in cui giocano i due talenti siciliani per garantirsene le prestazioni. La cifra è di 28 milioni, ma l’Amat è una società forte, che conosce molto bene il reale valore di quei due giocatori. Uno finirà al Milan, l’altro al Messina, ma per 35 milioni totali, non 28.

Il Palermo infatti, quasi infastidito da quei 7 milioni di differenza nella richiesta del club, decide di farsi da parte. «Meglio così, visto come sono andate poi le cose», rivela Totò in un’intervista di qualche anno fa.

Eppure, di qui in avanti, Totò non farà ritorno a Palermo che per commuoversi insieme alla propria gente del calciatore che è diventato, come quando dopo essere stato il miglior marcatore di Italia 90, con sei reti realizzate, torna al CEP, accolto da una folla tanto numerosa quanto sincera: lo chiamano ancora Totò, non osano gridare il cognome di Schillaci, impauriti che l’incantesimo della prima giovinezza si rompa improvvisamente.

E in effetti anche Schillaci dimostra di essere ancora Totò, perché guarda commosso la propria gente e scoppia in lacrime. I 60.000 dell’Olimpico, nelle notti magiche, e i 50 milioni di italiani durante il Mondiale, un effetto così sulle sue emozioni non erano riusciti a provocarlo. Ma il CEP, con le sue poche migliaia di persone, quell’effetto lo fa esplodere con l’impeto della gloria eterna.

Dalla Sicilia a Torino

Ma Schillaci non è solamente Italia 90. È prima di tutto Messina, dove segna a raffica e gioca sette stagioni straordinarie, tra C e B. Il 1987 è l’anno per lui più complicato, perché si deve operare due volte al menisco e non può rifiutare un servizio militare che sarà abolito di lì a 9 anni, quando Schillaci sarà già in terra nipponica.

Dopo la crisi dell’87, Franco Scoglio riesce a leggere nel cuore del ragazzo, rilanciandolo e addirittura facendolo esplodere del tutto. Nella stagione 1988/89 segna 23 reti in 35 partite, l’anno dopo sotto Zeman, con cui non ha mai un rapporto del tutto disteso, è addirittura capocannoniere della Serie B.

“Non sono uno sprovveduto. Gli anni che ho passato a Messina mi hanno insegnato qualcosa, anche perché ho avuto allenatori bravi a disciplinarmi. Ho sempre cercato di giocare per la squadra, almeno finché non vedo la porta. In quel momento scompare tutto. Siamo io, lei e il portiere. Se capisco che c’è il varco giusto, io ci provo. Un attaccante deve ragionare così e fidarsi del proprio istinto. Altrimenti quando segna?”

totò schillaci

E infatti nella stagione 1989, quando passa alla Juventus, il massimo salto della sua carriera, Totò segna la bellezza di 15 reti in 30 partite, vincendo anche una Coppa UEFA e una Coppa Italia. Quelle prestazioni gli valgono Italia 90, dove come ricordato diventa celebre agli occhi del mondo, amato da tutta Italia, emigrante per natura, perché per natura libero, senza confini.

Nel calcio, come nella vita. E infatti Schillaci, dopo un paio di stagioni in ombra sotto Maifredi e Trapattoni, lascia la Juventus per approdare nella sponda nerazzurra di Milano, dove se possibile fa anche peggio – non sempre per sue colpe, gli infortuni lo perseguitano.

Totò d’oriente

Il Giappone è in piena febbre da calcio e all’epoca il calciatore più celebre sulla faccia del pianeta è Roberto Baggio, fresco pallone d’oro 1993.

Il calcio italiano nella terra del sol levante provoca una passione vicina all’isteria di massa e per il lancio della nuova J-League, il primo torneo professionistico giapponese, federazione e sponsor pensano ad attrarre un nome di grido, che faccia scalpore e punti i riflettori di tutto il calcio mondiale sul nuovo campionato.

Baggio però è un sogno troppo grande e il Divin Codino non se la sente di emigrare in un campionato ancora poco competitivo. Ecco che allora ai giapponesi viene un’idea: Italia 90 è ancora fresco nella memoria, e il simbolo di quel mondiale è – e sarà per sempre – Totò Schillaci, che 4 anni dopo le notti magiche versa in una crisi tecnica all’Inter che non sembra dare vie d’uscita.

Certo il livello del calcio nipponico non sarà il massimo, ma gli Yen messi sul tavolo dai giapponesi sono davvero una marea, tanti per chi è cresciuto nel benessere, figuriamoci per Totò che doveva fare il gommista prima che il centravanti ai tempi della sua giovinezza al CEP di Palermo.

Così, a sorpresa ma neanche troppo, passa al Jùbilo Iwata nel 1994.

In terra nipponica realizza ben 56 gol in 78 partite. È il primo calciatore italiano a militare nel campionato giapponese, così come è tra i pochissimi siciliani a vantare così tante presenze in Nazionale Italiana. Si ritira definitivamente nel 1999 dopo l’ennesimo lungo infortunio che lo tiene lontano dai campi di gioco già dal 1997, anno in cui vince la J-League.

I nipponici, al suo arrivo, gli forniscono un interprete, un autista personale 24 ore su 24 e una bella abitazione. Qui, nella terra più elegante che ci sia, Schillaci trova la sua ideale conformazione, quella che cercava fin dai rudi e duri campi del quartiere CEP di Palermo.

È qui, in Giappone, che Totò diventa Schillaci. Nelle sue parole, il ricordo del Giappone testimonia un legame più profondo di quanto questa nostra breve biografia potrebbe mai sottolineare:

«Quando arrivai lì trovai un entusiasmo contagioso. Per loro lo Schillaci del mondiale non era mai finito e dimostrai con i miei gol quanto era forte il connubio: entusiasmo uguale impegno in campo e palla in fondo al sacco».

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