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Nel calcio, uno degli elementi statistici di maggiore affidamento è quello legato al fatto che la squadra di casa, quando ospita un importante torneo o manifestazione, risulta essere notoriamente una delle favorite per conquistare il titolo. Vuoi per le motivazioni, vuoi per il pubblico a favore: chi gioca tra le mura amiche, solitamente, gode di un certo vantaggio.

Provate a chiedere ad un britannico amante del tennis se la sopracitata convinzione vale anche per la racchetta: perché il torneo di Wimbledon, per una vita, è stato quasi una chimera per i tennisti di Sua Maestà.

Vi è stata infatti una vera e propria maledizione per gli atleti del Regno Unito, durata ben 77 anni.

Wimbledon, terra di conquista straniera

Il torneo di Wimbledon è l’evento più datato della storia del tennis. Iniziato nel 1877, anno dopo anno è divenuto un appuntamento sportivo di grandissimo prestigio, fino ad assumere i contorni glamour di una vetrina internazionale seguita in tutto il mondo. Solo le Guerre Mondiali e il Covid ne hanno interrotto la ciclicità, che fa sì che quella del 2021 sia l’edizione numero 134.

Oggi il torneo fa parte del circuito degli Slam, e ogni anno risulta essere iper combattuto, con tutti i migliori tennisti del mondo a contendersi l’ambito titolo.

E’ facile pensare, però, come nei primi decenni, Wimbledon fosse un’esclusiva (o quasi) dei tennisti britannici, dal momento che (è facile da capire) gli spostamenti, un secolo fa, erano più problematici rispetto ad oggi.

Tuttavia, qualcosa di strano è successo a metà anni ’30, quando il britannico Fred Perry , campione del mondo di ping pong e futuro imprenditore nel settore della moda, si impone a Wimbledon per tre edizioni di fila: nel 1934, nel 1935 e nel 1936.

Da allora, il torneo che fino a quel punto era stato una quasi esclusività dei tennisti della Regina, diventa una vera e propria maledizione: né i favoriti, né gli outsider o i giovani di buone speranze del Regno Unito riescono più ad affermarsi nel torneo dei tornei, beffardamente ospitato a pochi chilometri da Londra.

Ad alzare il trofeo si sono alternati per oltre mezzo secolo americani, francesi, australiani; i sudditi della regina hanno assistito alle epoche di Borg e McEnroe, assoluti mattatori negli anni ’70 e ‘80, a quelle di Sampras e Federer, senza trovare un tennista inglese che riuscisse nell’impresa.

E il fatto che la stampa, anno dopo anno, abbiano sempre caricato di pressioni gli atleti che sembravano avere qualche chance, davvero non aiuta.

Chi c’è andato vicino

Nessuna gloria, quindi, dal 1937 in avanti, per i britannici. L’aspettativa che ogni anno sale, poi, investe sempre più i tennisti.

Gli inglesi ci hanno sperato molto in alcuni casi, come nel 1982, quando Buster Mottram è arrivato al quarto turno, o nel 1992, quando Jeremy Bates (modesto tennista del West Midlands) arriva al terzo dopo aver battuto uno dei favoriti, Chang. Lo stesso Bates, nel 1994, fa un buon percorso prima di “sbattere” su Guy Forget.

Neanche un naturalizzato britannico di buone speranze riesce a sfatare la maledizione: è il caso di Greg Rusedski, canadese divenuto britannico nel 1995, che nel 1997 arriva fino ai quarti fermato da Pioline.

Ma il vero candidato a sconfiggere il sortilegio sembra Tim Henman, fortissimo sull’erba, che a cavallo tra il 1998 e il 2002 arriva per ben quattro volte in semifinale, dove Sampras (due volte) poi Ivanisevic (nel torneo della vita) e Hewitt lo estromettono, facendo piangere la Regina.

Andy Murray: fine della maledizione

L’ennesimo tennista su cui i britannici ripongono le loro speranze diventa Andy Murray: lo scozzese, infatti, nel 2009 diventa addirittura quarto nella classifica mondiale ATP, così l’assalto a Wimbledon sembra possibile.

La “maledizione Perry”, però, sembra essere davvero imbattibile quando nel 2012 Murray arriva in finale, e nonostante la spinta di un’intera nazione, non può che inchinarsi allo straripante Roger Federer, nonostante lo scozzese riesca a vincere il primo set.

L’anno successivo, pur volendo ritentare la rincorsa, Murray accusa problemi fisici, e si presenta a Wimbledon non certo da favorito.

Grazie alla sua grande esperienza, passa comunque i primi quattro turni, liquidando Becker, Lu, Robredo e Youzhny. Nei quarti, tocca l’ostico Verdasco, che infatti va avanti per due set a zero. Sembra finita, anche quest’anno,  ma qualcosa a livello mentale scatta.

Murray recupera e vince 3-2: da lì in avanti si capisce che questo potrebbe essere l’anno giusto. In semifinale, infatti, il rampante polacco Jerzy Janowicz non ha scampo, e si finisce con un 3-0 Murray.

In finale, la sfida è con Novak Djokovic. Finale che si annuncia piuttosto equilibrata, ma con un colpo di spugna Murray scaccia i fantasmi e riesce a vincere meritatamente per 3-0, succedendo dopo 77 anni a Fred Perry nell’albo d’oro dei vincitori di Wimbledon.

Le lacrime di gioia e gli abbracci del campo centrale, poi, si sono addirittura ripetuti solo tre anni dopo, nel 2016, quando lo stesso Murray ha rivinto il torneo dei tornei, battendo stavolta Raonic.

Sintomo del fatto che la maledizione è del tutto sconfitta, con i tifosi inglesi che sperano di non dover attendere mai più un periodo così lungo per festeggiare con un tennista di Sua Maestà.