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Tutte le storie hanno un principio, questa inizia esattamente da un golazo. Ecco, non è stata esattamente la sua genesi, ma ci serve come icona, come momento rappresentativo per simboleggiare l’inizio del miglior lustro del calcio valencianista, un’epoca di sorrisi e lacrime, di finali perse e titoli vinti, di rimonte mitiche e sconfitte dolorose. Una storia che iniziò, almeno simbolicamente, con un golazo. Di Mendieta.

Dal gol in poi

Arrivò nella finale di Copa del Rey del 1999. Il Valencia arrivò fino a lì dopo un percorso sorprendente, incluse le vittorie sul Barcellona ai quarti e il Real Madrid in semifinale. Il turno con il Barça fu tutto quello che rappresentavano in quel periodo le due squadre: pieno di gol, emozioni, marcatori diversi. Il Valencia vinse al Cam Nou per 2-3, al Mestalla per 4-3. Semifinali: Real Madrid (con un giocatore in meno dal 26esimo) asfaltato 6-0 all’andata.

Claudio Ranieri era l’allenatore di quella squadra. L’italiano era arrivato la stagione precedente per sostituire Jorge Valdano e aveva formato un gruppo serio, ordinato, dove brillavano su tutti due calciatori: Claudio ‘el Piojo’ Lopez, un attaccante argentino fisico e con una tecnica individuale, che rompeva con la sua velocità qualsiasi linea difensiva; c’era poi Gaizka Mendieta, centrocampista giovane e dinamico, soprattutto polivalente e con una classe pazzesca. L’autore del gol che cambiò tutto.

Superati i due giganti del calcio spagnolo, nella finale il Valencia aspettava l’Atletico Madrid di Radomir Antic, il quale tre anni prima aveva vinto il doblete. Nella società rojiblanca spiccava la magia di Valeròn e Juninho, completati dalla velocità davanti di José Mari e Lardìn. L’Atleti arrivava in finale di Coppa con il desiderio di vendicare una stagione mediocre in Liga, un tredicesimo posto e la paura concreta di vedersi potenzialmente in Segunda.

L’arrivo di Cuper

Ci si aspettava una finale dura, equilibrata, competitiva. Ma il Valencia impose subito la sua legge. Aprì le danze Piojo, dieci minuti più tardi arrivò la giocata della storia: Mendieta prese un cross dalla sinistra, aggirò la difesa dell’Atletico e inventò una giocata pazzesca, di potenza e abilità, folgorando il portiere. Lopez fece il 3-0 e in città partì la festa, con una certezza alla base: forse questa squadra meritava di più, parecchio di più.

Chiusa la stagione con il titolo, Ranieri abbandonò il club, sedotto dall’offerta dello stesso Atletico Madrid. Il suo posto fu occupato dall’argentino Hector Cuper, che aveva messo in curriculum un paio di stagioni sorprendenti con il Mallorca. Aveva, sostanzialmente, trasformato gli isolani in finalisti di Copa del Rey: in Italia, il paragone con il Cagliari è più o meno giusto. Cuper comunque era considerato come uno dei rappresentanti della terza via dl calcio argentino: un po’ Bilardo, un po’ Menotti. Imprevedibile, ma molto solido.

Un altro argentino atterrò assieme a Cuper, però per rafforzare il centrocampo. Dal Saragozza, Kily Gonzalez era un interno potente e con incredibile senso tattico. Rientrò dal prestito all’Alavés Gerard Lopez, altro mediano creato all’interno della Masia di Barcellona (il centro sportivo dei ragazzi). Questi acquisti, uniti a quello di Pellegrino e Juan Sanchez, servirono a sostenere un blocco già formato.

In Champions

La novità della stagione 1999-2000 era la partecipazione alla Champions League, competizione che il Valencia non giocava da trent’anni (era il 1970-71). Le aspettative iniziali si trasformarono in un viaggio appassionante, pieno di momenti magici, con un paio di goleade piazzate lì per la storia. La prima arrivò ai quarti di finale: Lazio rullata con un incredibile 5-2 nella gara di andata, giocata al Mestalla. I biancocelesti, all’epoca potenza con giocatori come Nedved, Stankovic, Simeone, Veron e l’attuale allenatore Simone Inzaghi, si videro sballottolati dal gioco valenciano sin dal primo minuto, quando Angulo segnò il gol che progettò un cammino pazzesco.

In semifinale, il Mestalla tornò a vivere un’altra notte indimenticabile contro il Barcellona. Consapevoli della necessità di portare a casa più vantaggio possibile per il ritorno al Camp Nou, un Valencia pieno di energia e ambizione arrivò ad accumularli, quei gol. Angulo due volte, poi Mendieta e Claudio Lopez: 4-1 che ancora oggi dà brividi incredibili.

Il Barça non riuscì a rimontare a casa propria, e il Valencia arrivò in finale dopo aver sbalordito tutta l’Europa. Il suo calcio, frenetico e pungente, aveva praticamente buttato fuori tutte le squadre più forti d’Europa. La solidità del blocco difensivo (Canizares tra i pali, poi Angloma, Pellegrino, Djukic e Carboni nella linea a quattro), il talento e la corsa della mediana (Gerard, Farinòs, Mendieta e Kily Gonzalez) e la velocità della coppia d’attacco, Angulo e Piojo Lopez, formavano una squadra quantomeno temibile.

Le storiche finali

A Parigi, il rivale sarebbe stato il Real Madrid, altra vecchia conoscenza di tradizionale rivalità. Nonostante il peso della storia giocasse a favore del Madrid, i blancos arrivavano da un momento complicato, una stagione irregolare in Liga e diversi problemi emersi durante l’annata. A Valencia, il finale era stato in crescendo, parallelamente viaggiavano i sogni. Era l’ora della verità, ma l’esperienza vinse pure sui sogni. Un colpo di testa di Morientes, una bomba di McManaman e un contropiede di Raul ruppero la gloria valenciana. Il 3-0 fu un finale amaro di una stagione sensazionale, mesi di inseguimento che si chiudevano con la sensazione d’opportunità persa. Il sospetto che sarebbe servito tanto altro tempo prima di tornare a sfruttare una chance simile.

Nulla di più falso. Dodici mesi dopo, il Valencia tornò a vivere la stessa esperienza. Lo scenario era diverso (Milano stavolta), il rivale era cambiato (il Bayern Monaco) e nemmeno il Valencia era lo stesso: arrivava con l’esperienza dell’anno prima, con la percezione della lezione appresa, sebbene nel frattempo la squadra avesse perso qualcuno dei referenti principali. Il percorso sensazionale in Champions aveva richiamato l’attenzione di alcuni club più forti d’Europa: Farinòs e Claudio Lopez andarono in Italia, Gerard tornò al Barcellona. Per coprire il buco a centrocampo arrivò il francese Didier Deschamps, quindi Ruben Baraja e su tutti Pablo Aimar. Ordine, disciplina e immaginazione per i cavalli di mezzo. Nell’estate del 2001, arrivarono inoltre il gigante John Carew e Roberto Fabian Ayala, centrale argentino inarrestabile, seguendo la scia della migliore tradizione dei difensori sudamericani presenti in Spagna.

La finale contro il Bayern fu nervosa. Il pallone quasi non si vedeva. Più emozione che gol, mettiamola così. Il Valencia partì forte, con un gol su rigore di Mendieta; i tedeschi pareggiarono ancora su rigore, grazie a Effenberg. Da quel momento, la tensione dominò la partita. Entrambe le squadre arrivavano da una sconfitta nelle ultime finali, avevano paura di commettere un errore fatale. La gara terminò ai rigori, una serie agonica con errori da ambo le parti. Vinse il Bayern. E crollò tutto.

Nell’estate del 2002, abbandonarono il club due grandi icone delle ultime stagioni, entrambe con biglietto pronto per l’Italia. Hector Cuper firmò per l’Inter, Gaizka Mendieta per la Lazio. Con l’addio dei due si chiudeva una tappa nella storia del Valencia, due anni di indimenticabile epica europea.