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Arrivare al posto giusto, forse al momento giusto, di sicuro con il cuore al sicuro, colmo di aspettative. Carlo Mazzone si è goduto ogni attimo, proprio perché la rincorsa verso il suo destino è stata lunga, frastagliata, piena di città diverse dalla sua Roma e comunque indissolubilmente legate all’Urbe.

Eterna, come la passione del Sor Carletto, allenatore sia per mestiere che per vocazione. Da un po’ di tempo, suo nipote gli ha creato un account Twitter e lo gestisce in serena comunione: pubblica storie, ricordi, vittorie (perché ce ne sono state) e soprattutto uomini. Con i quali Mazzone ha saputo creare alchimie rare per un tecnico. Mai stato padrone, del resto. Solo padre affettuoso. Soprattutto con i più forti: Totti, che era un ragazzo; Baggio, che era già uomo addolorato.

In quei tweet, Mazzone riceve tanto affetto, ma il più caloroso arriva sempre preceduto da due colori: il giallo e il rosso. Quattordici panchine diverse, da Ascoli a Livorno, eppure gli anni d’oro sono quelli della grande Roma. Dal 1993 al 1996, quando tutta la (nuova) rincorsa ebbe un senso. Messa così, tra parentesi. Perché già da ragazzo, e quindi da calciatore – era un arcigno centrale difensivo, rude nei modi e nei toni, ma pure dolce e persino tecnico – aveva accarezzato il sogno di giocare e rappresentare la sua città. Durò appena un anno, poco più che ventenne, con sole due presenze all’attivo. Un po’ di girovagare, prima di trovare casa: Ascoli, dal ’60 al ’69, tutte le rivoluzioni complete. Ed è lì che parte la grande storia.

L’arrivo all’Olimpico

La grande storia di chi ce l’ha fatta e di chi ha amato profondamente ogni suo giorno in campo. Dall’intuizione del grande presidente Costantino Rozzi, il percorso è stato netto: 7 anni ancora ad Ascoli, poi Fiorentina, Catanzaro, ancora Ascoli e Bologna. E intanto erano passati 18 anni, di esperienze e di calcio vissuto, di promozioni, retrocessioni, vittorie all’ultimo respiro e gavetta. Tutto per quegli anni, per quel ritorno a casa sempre così sospirato, sempre così vicino, sempre così annusato e in realtà mai, non arrivava mai. Tre anni a Lecce, uno a Pescara, poi il Cagliari e arriviamo al 1993. L’anno giusto. L’anno per prendere una squadra da ricostruire pezzo su pezzo, ma con una base interessante. A partire dal Principe. Dal capitano. Da Giuseppe Giannini, con il quale il rapporto sarà di profonda umanità, e tutto per amore della Roma.

E un innamorato della Roma era pure il nuovo presidente, Franco Sensi, che aveva visto Mazzone ragazzo emozionarsi per quella maglia e che volle tracciare il suo destino pure in panchina. Il tecnico gliene sarà per sempre grato: “Con lui ho avuto un rapporto splendido, è stato benevolo con me nei momenti difficili ed ero abbastanza giovane quando comunque mi scelse dandomi fiducia”. E i momenti complicati non furono pochi, perché se la Roma non era certamente paragonabili alle potenze del nord, la piazza e l’ambiente restavano altamente ambiziosi.

Dunque, come fare? Mazzone s’inventò la chiusura a riccio: provò a rendere impermeabile l’ambiente a critiche, chiacchiere, radio, stampa, anziani al baretto sotto casa. “Era ‘na Rometta“. Ma era orgogliosissima e ben radicata nella città, soprattutto nelle sue contraddizioni. Un giorno in paradiso e l’altro all’inferno: guardandola con gli occhi di oggi, alcune storie davvero sembrano non poter cambiare mai.

E non era un sergente di ferro, Mazzone. Era un padre affettuoso. Con una carica agonistica importante, ma anche con tanti tormenti. Mazzone viveva le gare in maniera esageratamente adrenalinica, si narra ancora della decisione di sua moglie di prendere un autista perché Carletto non sembrava in grado di concentrarsi su altro se non sul calcio. Capirete bene che la chiamata della Roma fu l’opportunità di una vita, e ogni volta in cui l’opportunità si stropiccia, rovina, strappa, è un colpo al cuore ancor più duro. Il primo anno fu desolante. Tenne botta, ma lasciò segni profondi.

L’avvio dell’avventura romanista

Il primo ottobre del 1993 venne organizzata una riunione a Trigoria per valutare il mercato. Sensi fu ben contento di soddisfare le richieste dell’allenatore, che nelle prime sei partite ottenne però sei sconfitte. Pesanti. E la situazione si era subito fatta delicata, particolare. La stampa, dopo averlo accolto con affetto, lo scaricò immediatamente dopo la sconfitta-beffa con la Cremonese.

Non erano neanche a novembre e si parlava subito di esonero, con tanto di contestazione avviata dai tifosi: un gruppo di fedelissimi giallorossi tentarono di forzare il blocco all’ingresso della sala stampa; Marco Mezzaroma, Luciano Moggi e Aldo Pasquali li affrontarono e continuarono a dare fiducia a Mazzone. Che il 5 ottobre, con la Roma terzultima, vede i fantasmi di Bigon, pronto a subentrare.

“Qui a Roma rischio di diventare meno dell’ultimo spazzino. Dobbiamo pensare a salvarci però, non bisogna dimenticare il destino della Fiorentina lo scorso anno”, il commento rilasciato a un giornalista. E a Roma non si perse tempo: spazzoloni, secchi e stracci “regalati” dai tifosi a inizio allenamento nella stessa giornata. Lo striscione è impietoso: “Se avete una coscienza, lavatevela“. Qualcuno sorrise, non Carletto. Il più responsabile di tutti, nei sentimenti e per l’opinione pubblica. Sensi continua a difenderlo ma la partita con il Padova, il 7 ottobre, sarebbe stata decisiva. In tanti, poi, gli chiedono di lanciare quel talento della Primavera, Francesco Totti, che Mazzone ha già adocchiato ma che, esattamente come farebbe un padre, è restio a lanciare nel buio di una squadra che non funziona.

Lo porta in panchina, in una partita che definirla al cardiopalma è esercizio di eufemismi. Prima segna Balbo, poi il pari dei padroni di casa, quindi un rigore non concesso e un altro annullato: è 1-1. Mazzone è salvo? Per Sensi, sì. Per Mezzaroma, chissà. Intanto, lo sfogo in conferenza stampa è durissimo: Mazzone scarica colpe e responsabilità sul mercato, sugli arbitri, sui giocatori. “Io voglio far sapere a tutti che Mazzone non si sente assolutamente colpevole. Di nulla”. I giornalisti vanno a nozze, Mezzaroma è piacevolmente sorpreso della presa di carattere: gli telefona subito e il rapporto è ricucito in un attimo, quello in cui si dicono di tutto.

Anni di alti e bassi

Alla fine, Mazzone rimase a Roma. E lo fece senza guardare il resto e concentrandosi solo sui giocatori. A partire da quel ragazzo che aveva già debuttato con Boskov e che cercava continuità tra i grandi. Storica, la scena in cui chiama il suo secondo, Menichini, chiedendogli di prendere qualche giocatore dalla formazione Primavera per portarli agli allenamenti della prima squadra. “Ma chi è ‘sto ragazzo? Non lo conosco”, le parole al suo vice. “Si chiama Francesco Totti”, la risposta. Che sembra l’inizio di una storia da romanzo e probabilmente lo è.

Mazzone rimase colpito fin da subito e in quella squadra c’erano giocatori devastanti, come Balbo e Fonseca, come Thern e lo stesso Giannini. Ecco, a proposito di Giannini: con lui, Carletto fece un patto. Dopo una quindicina di giorni di allenamenti con Totti in prima squadra, il tecnico prese da parte il capitano e gli disse: “Peppe, fammi un piacere. Sai che non mi innamoro facilmente, però ‘sto ragazzo ho la sensazione che possa diventare un fuoriclasse. Ha velocità di pensiero, tecnica importante, vede la porta e sa giocare con i compagni. Stagli vicino, non si deve perdere. Perché lo vedo che arriva al campo con la vespa e ho paura possa farsi male. Facciamo un patto: portiamolo in alto”.

E Giannini ne fu entusiasta: allenatore romano, capitano romano, giovane romano. Il Principe amava l’idea di una Roma con ossatura romana e romanista. E non disdegnava certo gli acquisti arrivati nell’estate del 1994, quando Sensi portò l’attaccante Daniel Fonseca dal Napoli, in quel momento tra i giocatori più forti del campionato italiano.

Con Balbo e l’uruguaiano, Mazzone aveva una coppia di attaccanti semplicemente incredibile, che infatti a fine anno arriverà a quota 30 reti. Ecco, il giorno più bello è probabilmente quel 27 novembre del 1994: la Roma batte 0-3 la Lazio di Zeman e per i giallorossi è festa incredibile, con il ritorno alla vittoria di un derby dopo cinque lunghissimi anni. Basterà, probabilmente, a strappare il rinnovo per la stagione successiva: la stagione resta a zig zag, un po’ su e un po’ giù, comunque la migliore per Mazzone. A fine anno, quinto. Con un bel cammino in Uefa.

Urla e tenacia, nel 1995-96 la Roma cercava l’aggancio ai piani alti, con un Francesco Totti sempre più protagonista.

Dopo una serie di ottime partite, con la qualificazione fino ai quarti di finale di Coppa Uefa (una partita sanguinosissima con lo Slavia Praga), nella seconda parte di stagione arriverà un giovane interessante e dal gol facile.

Si tratta di Marco Delvecchio, arrivato dall’Inter in cambio di Marco Branca. Nella sua ultima stagione in giallorosso, Mazzone si conferma: è quinto ed è in Coppa Uefa.

Perché arriverà l’addio? Probabilmente, per l’accumulo di amarezze. Per quella Roma che doveva necessariamente cambiare. E per il nuovo, inevitabilmente, che sa solo avanzare: nell’ultima partita, il simbolico passaggio di consegne tra Giannini e Totti. Stava nascendo, pian piano, la Roma che avrebbe lottato per lo scudetto.