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Il quesito sulla sostenibilità economica degli eSports è sempre alla ricerca di una risposta. E prima o poi qualcuno dovrà darla perché il settore sta mostrando evidenti segni di difficoltà.

In particolare nei mercati più giovani, come ad esempio quello italiano, dove la maggior parte delle organizzazioni deve ricorrere al sistema dei finanziamenti (si vedano i casi Mkers e QLASH) per poter sostenere l’attività.

In tutto questo, la cosa che più colpisce è la presenza di un’enorme contraddizione. Se da un lato l’audience globale degli eSports aumenta e con essa anche il pubblico (online) che segue gli eventi, dall’altro tutto questo non si traduce in un’adeguata monetizzazione.

Vale a tutti i livelli, ma l’impatto è decisamente più negativo sul 90% delle società professionistiche, quelle che potremmo definire di “seconda fascia”: per tutte loro i margini sono ridotti e le franchigie rimangono una chimera.

Chi ha familiarità con lo sport a stelle e strisce conosce il significato di questo termine (franchise, in inglese).

Le principali franchigie nordamericane di sport di squadra (credits Megapixl.com)

Negli States e in Canada, gli sport professionistici più seguiti non hanno un campionato di Serie A, uno di B e via dicendo, non prevedono cioè promozioni e retrocessioni. Le società sportive mantengono il proprio posto nella lega fino a quando possono permettersi di pagarlo. E’ uno “slot” che può anche essere ceduto ad un’altra società, magari spostato di città, ma il sistema è essenzialmente una forma di business.

I Chicago Bulls, ad esempio, sono una franchigia il cui principale obiettivo è massimizzare i propri profitti. Il mezzo fondamentale per raggiungere il target economico è ancora legato alla vendita dei diritti televisivi.

In forma simile, questo è stato il modello anche delle prime grandi organizzazioni esportive. Parliamo di Fnatic, Cloud9, Team Liquid, GenG, G2 etc., società che si sono affermate dal 2005 in avanti, quando il settore dei videogame ha iniziato a proporre eventi competitivi sempre più importanti. Il fenomeno si è progressivamente ampliato a livello globale e i media lo hanno reso appetibile per i grandi sponsor. Diritti per lo streaming, contratti con aziende, vendita di ticket e merchandise hanno dato ragione alla trasposizione del modello delle franchigie sportive negli eSports.

Oggi, le franchigie delle competizioni più gettonate (LoL, CoD, Overwatch…) valgono decine di milioni di dollari.

Ciononostante, anche le organizzazioni che fanno parte di questa “superlega” stanno ampliando il proprio range di attività. I Fnatic, ad esempio, hanno acquistato FUNC, società che produce e vende prodotti hardware.

FaZe Clan e 100 Thieves hanno puntato sul concetto di lifestyle, ovvero merchandise di prodotti – abbigliamento in particolare – brandizzati e in grado di offrire alla community un senso di appartenenza.

Nessuno in questo settore può prescindere da un buon utilizzo dei canali di comunicazione. In particolare, il Team SoloMid (TSM) ha utilizzato i social per indirizzare i propri followers verso app sviluppate dalla società partner Swift Media Entertainment.

Ma se anche le big hanno bisogno di aumentare le entrate, cosa deve fare il restante 90% delle società esportive?

Il Team Fnatic di Counter-Strike: Global Offensive all’ESL Intel Extreme Masters 2020 di Katowice, Polonia. (Photo by Norbert Barczyk/PressFocus/MB Media/Getty Images)

Purtroppo il gap tra il mondo delle franchigie e il resto delle organizzazioni esportive è ancora molto ampio. Il vantaggio dei primi è al momento troppo grande per pensare di essere colmato nel breve periodo.

Tuttavia è possibile trarre indicazioni importanti dal modello che le majors degli eSports stanno adottando.

La prima fra tutte è che l’aspetto competitivo puro non è una strategia di business, è solo un plus. Investire troppo su team performanti può rivelarsi controproducente. In questo momento, per le società medio-piccole la chiave è la diversificazione.

Gli esempi di cosa può essere fatto per monetizzare sono quelli che abbiamo indicato in precedenza, ma ce ne sono anche altri. Uno particolarmente interessante, e ancora un po’ di nicchia, è quello della vendita e spacchettamento delle carte collezionabili in diretta, come fa il team F2K. L’appassionato di gdc (virtuali e non, come Magic:The Gathering ad esempio) si entusiasma mentre il pacchetto di carte che ha appena acquistato viene aperto su Twitch o Youtube!

Questo sistema funziona perché è originale e coinvolgente, due elementi che la Gen Z cerca nell’intrattenimento virtuale. L’elevato grado di coinvolgimento della community è esattamente ciò che serve alle organizzazioni esportive.

Ci sono poi altre opzioni che possono essere esplorate. Ad esempio la creazione di Academy esportive, cioè eSports-school, dove poter interagire con i gamer dei vari team. E perfino inventare giochi nuovi, come ha fatto Tempo Storm con la creazione di un proprio gioco digitale di carte collezionabili.

Lo spazio per operare c’è, perché il mercato è in espansione. Cura per la community, diversificazione e originalità dell’offerta sono le chiavi per monetizzare.

Serve però anche un cambiamento di paradigma, una svolta di tipo comunicativo. Il settore degli eSports deve sapersi proporre anche ai genitori di chi oggi è un appassionato di videogame. Deve passare il messaggio che gli eSports sono sia divertimento che professionalità, e questo dipende da chi lavora nel settore e da chi ne parla. Senza l’avvicinamento delle famiglie è difficile pensare ad un massiccio afflusso di nuovi sponsor.

Questo vale un po’ dappertutto, ma soprattutto in Italia dove gli eSports, a livello di immagine “mainstream”, devono ancora fare parecchia strada.

Immagine di testa by Getty Images