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L’ecosistema eSports è sostenibile? La domanda può sembrare completamente fuori luogo, soprattutto se formulata in un periodo in cui le competizioni di videogiochi hanno raggiunto picchi di audience inaspettati. La pandemia ha senza dubbio accelerato la diffusione degli eSports a livello globale, ma la continua ricerca di investitori da parte delle organizzazioni esportive fa pensare che il mercato non sia ancora arrivato ad un piena maturazione.

La questione si fa ancora più evidente in Italia. Il nostro Paese sta registrando una forte ascesa dell’interesse per gli eSports, ma gli investitori sembrano essere ancora un po’ timidi. A soffrirne di più sono le società multigaming, ovvero le organizzazioni esportive che gestiscono team competitivi su più titoli, e che sono alla ricerca di un modello di business profittevole.

Il rischio è che a fronte di un pubblico sempre più ampio e competente, il settore esportivo italiano possa perdere qualche pezzo. Sarebbe un peccato, anche in considerazione dei buoni risultati che i player nostrani stanno ottenendo a livello internazionale: pensiamo ad esempio alle nazionali di PES e FIFA, e al piazzamento dei Mkers nei recenti EU Masters di LoL.

Della sostenibilità degli eSports in Italia abbiamo parlato con Enrico Gelfi. Attivo da anni nel settore del management sportivo attraverso la società EIS, all’inizio del 2020 Enrico Gelfi ha fondato insieme a Luigi Caputo l’Osservatorio Italiano ESports. Dopo solo un anno e mezzo di vita OIES è già diventato un punto di riferimento per le varie voci (istituzioni, aziende, team, agenzie e professionisti) del settore esportivo italiano. Tutto questo fa di lui un interlocutore ideale per dare una risposta al nostro quesito iniziale.

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Benvenuto Enrico su PokerStarsnews.it e grazie per il tuo tempo. Cominciamo cercando di inquadrare il settore italiano degli eSports: a che punto stiamo rispetto agli altri?

Un saluto a tutti e grazie a voi. Rispetto ai Paesi all’avanguardia negli eSports siamo ancora indietro, e di molto. Va detto che da noi questo settore ha iniziato a crescere più tardi rispetto a Germania, Francia e Spagna, solo per citare alcuni Paesi europei che possono servire da confronto, perché Far East e USA fanno gara a parte. Di per sé questo ritardo potrebbe tradursi in un vantaggio, ma prima ci sono gap importanti da colmare.

Gap di tipo economico?

Non solo, ma quello del giro d’affari è il più marcato. Premetto che in Italia non esistono dati sufficientemente esaustivi e precisi sul livello del nostro mercato. Ci sono però le ricerche di Newzoo, che indicano in più di un miliardo di dollari il giro d’affari globale degli eSports. Ebbene, stando a ciò che possiamo misurare, l’Italia contribuisce in maniera minima a quella cifra. Ci sono però dati affidabili (ad es. quelli di YouGov) sull’audience esportiva italiana. Ed è qui che si nota l’anomalia, perché il potenziale in Italia c’è, eccome. Non manca il mercato, non manca la domanda, manca ancora la consapevolezza che gli eSports possono essere un buon investimento.

Qual è la causa principale di questa anomalia?

Non c’è una causa unica, piuttosto esiste una serie di concause. Innanzitutto a livello politico si muove poco, molto poco. Ci sono evidenti carenze legislative, oltre a quelle di fondi e facilitazioni per chi vuole entrare in questo settore. Poi c’è un’assenza di valutazioni sul ritorno di investimento. Dal lato dell’offerta, quindi, mancano una serie di strumenti che possano favorire gli investitori. Tutto questo fa sì che gli sponsor non endemici si stiano affacciando con molta prudenza. Ribadisco il paradosso: a pieno regime di investimenti non avremmo nulla da invidiare a paesi come Germania, Francia e Spagna.

Dal lato degli investitori, pensi ci siano un po’ di preconcetti nei confronti degli eSports?

Diciamo che c’è un problema culturale e di comprensione del settore. Ogni volta che un potenziale stakeholder viene all’OIES per capire se vale la pena investire, la prima cosa che ci dice è: “io ho ben chiaro come spendere i soldi negli eSports, non mi è chiaro come farli!”. Questo dimostra che la bontà di un’organizzazione esportiva continua ad essere misurata con le metriche classiche. L’awareness del brand è sicuramente un KPI (Key Performance Indicator, ndr) importante ma deve essere valutato per un settore digitale come quello degli eSports che ha un potenziale di conversione altissimo anche se magari non immediato.

Gli eSports sono un ibrido tra intrattenimento digitale e sport, il cui punto di forza è la capacità di comunicare con le nuove generazioni: Z in particolare, Millennials in parte e sicuramente quelle a venire, Y e così via. Comprendere questo elemento e saperlo trasformare in business è la chiave per monetizzare l’investimento negli eSports.

C’è qualcuno che ci è riuscito?

Sicuramente alcuni grandi team internazionali che, tra l’altro, hanno il vantaggio di essere partiti prima degli altri. E’ grazie a questa lettura del mercato che ora sono in grado di attirare investitori, sponsor e possono permettersi di giocare nella “superlega” degli eSports, quella delle cosiddette franchigie. Da noi ci sono alcune organizzazioni che stanno facendo questo percorso, ma il ritardo del nostro Paese le obbliga ancora alla “fase di galleggiamento”, dilazionando nel tempo il momento del ricavo. Una fase delicata ma io credo che chi la supera avrà in mano un business vincente.

Mancanza di strumenti, barriere culturali e un pizzico di anarchia. Cosa offre OIES di fronte a questi problemi?

Luigi e io abbiamo cercato di trasformare un punto di debolezza in un punto di forza. Entrambi proveniamo da mondi esterni a quello degli eSports. Ma proprio per questo crediamo di aver portato nuove competenze, nuove visioni e prospettive per chi vuole fare business esportivo. Quando siamo arrivati c’erano solo realtà endemiche, team, federazioni e organizzatori, spesso in lotta fra loro. Crediamo che il nostro arrivo abbia innalzato il livello professionale del settore. Abbiamo messo in moto nuove tendenze, proponendo alle società di eSports di non rimanere confinate nell’ambito competitivo – quindi la pura gestione dei team – ma di diventare società media, di content creation, perfino di consulenza.

Ultima domanda, leggermente provocatoria. Secondo IIDEA gli eSports non possono essere inseriti nell’alveo degli sport tradizionali. Il CIO invece li vuole, almeno quelli a contenuto sportivo. Come si pone OIES di fronte a questo bivio?

Premetto che la diatriba ha avuto un tempismo incredibile, nel senso che lAssociazione di categoria dell’industria dei videogiochi ha detto no all’identificazione tra eSports e sport quasi in contemporanea con l’annuncio degli Sport Virtuali da parte del presidente del CONI Malagò. A parte questo, come OIES crediamo che le divisioni non servano al mercato. Le chiusure su posizioni più di forma che di sostanza rischiano di creare ulteriore confusione per i potenziali investitori. Tuttavia, l’idea dei Virtual Sports è un primo tentativo di regolamentare almeno un aspetto di questo settore e quindi di limitare quell’anarchia di cui parlavo all’inizio. Ce ne possono essere altri, magari migliori, ma intanto è un primo segnale che qualcosa si muove anche a livello istituzionale. Gli eSports hanno bisogno di un po’ di “forma” e da qualche parte bisogna pur iniziare.

Foto di testa: Enrico Gelfi (sx) e Luigi Caputo (dx) (credits Sport Digital House)

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