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Ogni volta che guardiamo una partita, o meglio prima di guardarla, diamo per scontato vedere la disposizione in campo dei giocatori secondo un modulo predefinito. Ma quando si è iniziato a pensare ai giocatori in campo disposti secondo un preciso modulo rispetto ad un’altro?

I primi moduli del calcio

Originariamente nel calcio i giocatori si disponevano secondo una specie di 1-1-8, una disposizione frutto del tipico “kick and rush” praticato dagli inglesi, ovvero quel sistema di gioco, molto simile a quanto praticato nel rugby, per cui la palla veniva calciata in avanti cercando direttamente gli attaccanti più avanzati. 

Con il tempo iniziò a prendere piede la cosiddetta Piramide di Cambridge (dal nome del college dove sono state codificate le prime regole del calcio), ovvero uno schieramento che prevedeva una prima linea di cinque giocatori che formavano il fronte d’attacco (il centravanti al centro con mezzali e ali ai suoi fianchi), una seconda linea alle loro spalle composta dai tre mediani e la terza linea, con i cosiddetti terzini che rappresentavano l’ultima linea di difesa prima del portiere.

Agli albori del calcio le regole non erano ancora così articolate ed evolute come oggi, ma una in particolare è sempre stata presente: il fuorigioco.

Però fino agli anni ‘20 la regola presentava una sostanziale differenza: il minimo di giocatori che dovevano tenere in gioco un avversario era di tre, compreso il portiere. Con la modifica regolamentare entrata in vigore nel 1925 il fuorigioco diventa fondamentalmente quello che è ancora oggi: per essere considerato “in gioco”, un attaccante doveva avere tra sé e la porta due giocatori avversari, non più tre, nel momento in cui gli veniva passata la palla.

In questa maniera diventava molto più semplice per l’attaccante giocare in linea con l’ultimo difensore e cercare di bruciarlo sullo scatto.

Il Sistema di Chapman: il WM che rappresenta il primo vero modulo del calcio

Fu l’allenatore dell’Arsenal Herbert Chapman il primo a studiare una contromossa a livello tattico a questa modifica regolamentare: assegnò al centromediano il compito di controllare in maniera costante il centravanti avversario, arretrandolo sulla linea dei difensori. Nasceva così lo stopper, mentre i terzini erano liberi di allargare la loro azione difensiva sulle fasce per contrastare l’operato di ali e mezzali.

L’arretramento del centromediano lasciava però maggiormente scoperti gli altri due mediani, di conseguenza alle mezzali fu chiesto di fare un passo indietro, andando a giocare il pallone in quella zona di campo troppo distante per i mediani ma troppo arretrata per il centravanti e le ali. 

La disposizione in campo risultava così una sorta di 3-2-2-3, che all’epoca veniva visualizzata con la dicitura WM, dove le tre punte superiori della W, raffiguravano i tre attaccanti, i vertici inferiori le mezzali, così come i vertici superiori della M rappresentavano i mediani mentre quelli inferiori i difensori.

Questo modulo, detto anche il Sistema di Chapman, offriva alle squadre con un maggior tasso tecnico la possibilità di gestire meglio il possesso palla, dal momento che nella cerniera di centrocampo le mezzali ricoprivano il ruolo di suggeritori, non più di finalizzatori, supportati dal lavoro dei mediani che recuperavano palloni alle loro spalle e glieli servivano.

Per la prima volta una squadra scendeva in campo con l’idea di arrivare a segnare attraverso la costruzione del gioco, con passaggi rasoterra e sfruttando il tempismo negli inserimenti, piuttosto che con lanci lunghi ad avvicinarsi il più possibile alla porta avversaria.

Il Metodo, o WW, la risposta continentale al WM

Mentre Chapman mieteva successi in Inghilterra grazie al Sistema praticato dal suo Arsenal, in Europa si sviluppava una sorta di risposta continentale, rappresentata dal Metodo, detto anche WW.

I padri del Metodo sono considerati Vittorio Pozzo, commissario tecnico dell’Italia, e Hugo Meisl, amico e rivale sulla panchina austriaca. La differenza sostanziale era l’arretramento di due mediani sulla linea difensiva, alle spalle anche dei terzini, i quali invece giocavano leggermente più alti, praticamente in linea con quello che viene battezzato centromediano metodista, che aveva il compito di regista arretrato, ovvero di far partire i contropiedi una volta che la difesa aveva recuperato palla, giocando velocemente sulle mezzali o sulla linea degli attaccanti.

Si trattava di un metodo di gioco che valorizzava maggiormente i giocatori più fisici e meno veloci e tecnici rispetto agli inglesi, Se l’Italia di Pozzo vinse due Mondiali e un’Olimpiade grazie all’applicazione del metodo in chiave difensiva, il Wunderteam austriaco di Meisl ne diede un’interpretazione più offensiva, avvicinandosi maggiormente ai principi di gioco del Sistema chapmaniano pur mantenendo la maggior densità della linea difensiva.

Lo scontro tra sistemisti e metodisti fu il primo grande dibattito tattico della storia del calcio: in Italia il Metodo fu la chiave dei successi del Bologna “che tremare il mondo fa” e della Juventus del Quinquennio d’oro, ma nel frattempo l’Arsenal di Chapman fece scuola anche nel nostro paese, non appena  il Grande Torino adottò il Sistema vincendo cinque scudetti consecutivi negli anni Quaranta, un’epopea di vittorie spezzata solo dalla tragedia di Superga.

La Grande Ungheria e il suo MM

Dopo la guerra il Sistema conobbe una nuova linfa grazie alla variazione apportata dalla Grande Ungheria di Gusztav Sebes, che modificò il WM in un MM, ovvero una sorta di 3-2-3-2 in cui il centravanti Nandor Hidegkuti arretrò a giocare in posizione di trequartista, in una sorta di antesignano del moderno falso nueve tanto caro alla tradizione iberica.

Le due ali quindi, Sandor Kocsis e Ferenc Puskas, divennero quindi attaccanti a tutti gli effetti, nel primo schieramento a due punte della storia.

Grazie alla capacità di creare così superiorità numerica a centrocampo, e anche alla straordinaria qualità dell’Aranycsapat (letteralmente Squadra d’oro) l’Ungheria dominò la scena calcistica per tutta la prima parte degli anni ‘50, arrivando fino alla finale del Mondiale del 1954 persa contro la Germania in quella che per i tedeschi è passata alla storia come “Miracolo di Berna”.