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Se chiude gli occhi, Nicola Berti, sente ancora l’odore del prato di San Siro. E se si concentra, specialmente in questi giorni di vuoto, riesce nuovamente ad ascoltare il coro che i tifosi dell’Inter avevano riservato a lui e a lui soltanto.

Era un altro calcio, ed è il primo pensiero che sovviene davanti a una figura come quella di Berti; era un’altra Milano, quella degli anni Ottanta, scintillante, delle feste – e Berti ne dava alcune semplicemente memorabili – e del via vai in zona centro.

Nicolino abitava in piazza Liberty, a due passi dal Duomo. Si divertiva. Si sentiva grande quanto quel mondo. Lui, che aveva lasciato Salsomaggiore per Milano, poi Milano per Piacenza.

A Repubblica, spiegò d’averlo fatto per una questione di equilibrio: “La vita è fatta di fasi, oggi per me sarebbe troppo caotica. A Piacenza ho trovato il mio equilibrio, con mia moglie e i miei figli”. Il grande gioca a calcio, nella scuola della città. Le orme di papà sono un obiettivo.

Intanto, continua a correre. Come un forsennato. Come insegna il cognome sulla maglia.

Da Parma, a Firenze, fino all’Inter

Se c’è un uomo chiave nella crescita di Nicolino Berti da Salsomaggiore questo è senza dubbio Aldo Agroppi, allenatore della Fiorentina nel 1985.

La cronaca dei tempi racconta di un amore folle per questa chioma che a Parma avevano trasformato in calciatore. Una furia dal sorriso genuino, di paese. I polmoni di un lavoratore instancabile, che superava i vecchi canovacci dei mediani e ne aggiungeva qualità nella copertura della palla, sensibilità negli inserimenti. Oh, era un anarchico, almeno tatticamente. E come ogni anarchico, aveva sempre qualcuno pronto a immaginare una vita secondo i ranghi, rinchiusa nei preconcetti. Protetta dagli elenchi di cose da fare.

Nicolino, semplicemente, aveva più voglia d’emergere che d’infilarsi nei vecchi stereotipi. Firenze gli sembrò un’ottima possibilità: aveva appena diciott’anni, soldi e un posto fisso in Serie A.

Agroppi lo fece esordire immediatamente e – a proposito di quel carisma – lui rispose con due reti all’Inter e alla Juventus. Aiutando e servendo, prendendosi cura di quel giovane Baggio con un passato già ingombrante, con un futuro meraviglioso e di sole predizioni.

Berti, con i capelli a spazzola, quelle braccia enormi, le prime donne a fargli la corte, pensava solo a correre e non avrebbe mai immaginato che da lì a qualche anno sarebbe stato responsabile di uno strappo epocale. Della rottura di un’amicizia, della sua personalissima battaglia contro un mito. Per certi versi, impossibile da prevedere. Per altri – e bastava conoscerlo, ma conoscerlo per davvero -, era fondamentalmente inevitabile.

Di cosa parliamo? Del passaggio all’Inter, di cui diventerà un simbolo. Sette miliardi di lire, pagati dall’allora presidente nerazzurro Pellegrini per strapparlo al Napoli con cui sembrava già fatta, provocarono la rottura del gemellaggio storico tra le tifoserie di Fiorentina e Inter.

Non una roba da poco, e Berti l’ha sempre saputo: la prima volta che andò a giocare a Firenze con la nuova maglia, il pubblico lo distrusse. Fischi e pernacchie, e per tutta la partita. Gli anziani gli tiravano monetine. “Quanto mi avevano amato in viola, tanto mi hanno odiato dopo che me ne sono andato”, dirà in seguito.

Fu la prima volta, forse l’unica, in cui soffrì maledettamente per il pallone. Di solito, e questa è stata la sua grande forza negli anni, sfottò e cori lo caricavano. Quella volta no, era diverso. Erano gli ex tifosi, gli ex compagni. “Mi sgonfiarono le gambe”, e il Trap lo tolse dal campo dopo venticinque minuti.

L’Inter finì per perdere una partita rocambolesca per 4-3 dopo essere andata in vantaggio per ben due volte. E non parliamo della pazza Inter. Ma della fredda e calcolatrice macchina da gol messa in piedi dal Trap per conquistare quello che sarà lo scudetto dei record. Una delle due sconfitte in campionato arriva proprio qui a Firenze dove Berti annaspa soffocato dall’odio pieno d’amopre tradito dei suoi ex tifosi.

Una dimostrazione plastica di come, anche se appena arrivato in nerazzurro, quell’Inter andasse al ritmo e al respiro di Nicolino Berti.

Nicola Berti simbolo di interismo

Fu esattamente quello: prima e unica volta. Del resto, Nicolino è sempre stato un combattente, sfuggiva agli avversari come a tutto il rumore di sottofondo.

Se dovessimo paragonarlo a un giocatore dell’Inter di oggi, quella dell’allora avversario e amico Antonio Conte – anche per la Nazionale -, diremmo ad occhi chiusi Barella. Forse più tecnico, di sicuro meno tenace. Sulla strada dei ricordi, c’è da dire che Berti seppe inserirsi alla perfezione in una squadra dai caratteri forti.

Guidata da Bergomi, “salvata” da Zenga, poi Ferri e i tedeschi. Quella del Trap, insomma. Sergente di ferro che adorava le scorribande del suo centrocampista. “L’ho visto alla Scala per la festa dei 50 anni dell’azienda di Pellegrini – ha raccontato una volta il centrocampista -. Scherzando, ho detto alla moglie: dai che è vecchio! Tienilo a casa, fallo riposare!”. Ma come si fa, con Trapattoni? Semplice: non si fa.

L’Inter è stato il suo grande amore. Dieci anni vissuti in un attimo. Indimenticabile.

Dal 1988 al 1998, una vita che è passata e che l’ha reso immortale. E no, non si esagera: da quel gol a Monaco di Baviera contro il Bayern, nella gara d’andata degli ottavi di Coppa Uefa, passando per la Coppa Uefa nel 1991, quindi il gol al Salisburgo nel 1994. 309 partite e 57 gol, fino a un freddissimo otto gennaio di come Milano, e soltanto Milano, sa offrire: aveva deciso di cambiare vita e soprattutto di reagire agli ultimi due anni di infortuni, delusioni, di partite solo ammirate e lontano da ogni forma di protagonismo.

Il destino volle che lui, la bandiera dell’antimilanismo, il giocatore che incarnava lo spirito di Peppino Prisco, l’uomo del ‘meglio secondi che milanisti’, se ne andasse via alla vigilia di un derby importantissimo per la squadra nerazzurra. Fu una coincidenza, qualche scherzo astrale di cui non capiremo mai l’entità.

L’ultimo regalo della società fu quello di lasciarlo andare a zero, al Tottenham. Gli ridiede il sorriso sguaiato e allegro. Nelle ultime due stagioni, infatti, il broncio aveva usurpato il trono della felicità. Nicolino non si divertiva più. Almeno in campo.

E il giorno dell’addio è stato tanto emozionante quanto quello del suo arrivo. Dalla telefonata di Klinsmann, che lo convinse a raggiungerlo a Londra, al saluto con Beppe Bergomi, uno dei suoi migliori amici. “All’ora di pranzo mi ha chiamato Jurgen per darmi la bella notizia. Ero a tavola con i compagni, sono andato da Bergomi, ho preso la sua mano e l’ho appoggiata sul mio cuore. Batteva a mille. All’improvviso mi sono sentito come un ragazzino, come quando avevo vent’anni”, il suo racconto all’epoca.

Subito dopo Berti telefonò a Moratti: “Ti lascio andare solo se sei felice”, le parole del presidente. E Nicola lo era. E lo è stato, fino alla fine. Un anno in Premier, dove trovò “giocatori un po’ scarsini”, poi mezza stagione all’Alavés, in Spagna, e l’ultima esperienza al Northern Spirit.

Poi la famiglia, gli affetti, il ritmo rallentato da padre di famiglia che prende il posto della superstar del calcio.

Fuori dagli schemi della vita

Tutti lo sanno, ma nessun altro sa raccontarlo come lui. Berti amava la vita notturna tanto quanto il calcio giocato. O almeno questa era la leggenda, arrivata persino ai piani alti della società.

L’Inter lo faceva pedinare, specialmente se veniva avvistato in qualche locale alla moda di quegli anni ruggenti. “Pagavano qualcuno per starmi sempre dietro, poi in allenamento mi chiedevano: cosa ci facevi in quel locale l’altra sera? La mia risposta era sempre la stessa: se in campo corro, quel che faccio la sera sono fatti miei”.

Le fidanzate celebri si sprecano. Una volta è stato associato anche a Uma Thurman: lui giura che sia stata solo amicizia. È celebre un’ospitata a Mai Dire Gol, con l’attrice che accompagnò il calciatore e s’infilò nel pubblico in studio. Ecco, sì, esatto: c’è una puntata di Mai Dire con Uma Thurman nel pubblico. Solo Berti. Con una simpatia molto accentuata anche per Carla Bruni, l’ex premiere madame.

Se gli chiedete il suo gol più bello, però, torna l’interista che è dentro di lui: derby 1992-1993. Prende la palla a Maldini, fa un tunnel a Costacurta – e già questo basterebbe – con il difensore che non ha alternativa se non stenderlo. Baresi gli tira una palla addosso, Berti s’infuria come poche volte e prende ammonizione. Ruben Sosa prepara la palla e calcia la punizione. In area se lo contendono in due e Nicola stavolta urla di rabbia: “Ora vi faccio gol!”. Cross, colpo di testa, gol.

Perché l’amore si dimostra con i fatti, sì. Ma anche con le parole.