Vai al contenuto

Era l’estate del 1992. Quella in cui la Danimarca scriveva una storia impossibile. Quella in cui la disillusione degli italiani, orfani di una grande competizione come solo poche volte nella sua storia – dannato 1958, ma anche cinque assenze dalle fasi finali di un Europeo -, parzialmente provava a rinsaldarsi e a riunire i cocci della delusione post Italia 90.

Insomma, come oggi, c’era un percorso da fare e una Nazionale da ricostruire. O meglio: da aggiustare. Perché la base era formidabile, solidissima. La generazione successiva al Mondiale del 1982 non solo era venuta su con grande qualità, ma c’era un talento finissimo, che poi si rispecchiava nel campionato più duro, magico, avvincente di tutti.

Ecco, tra Vialli e Baggio, poco più indietro quella difesa di ferro, gli Stati Uniti ebbero il classico guizzo che li contraddistingue da secoli: perché non inserire tutta quella qualità in un torneo ‘preparatorio’ in vista dei Mondiali del 1994?

Unirono allora la nazionale Usa all’Irlanda e Portogallo, altre big europee a secco di programmi estivi, creando di fatto la U.S. Cup del 1992, andata avanti fino al 2000 ad eccezione degli anni in cui si tennero il campionato del mondo del 1994 – appunto negli States – e il Mondiale del 1998, tenutosi in Francia.

L’Italia, che squadra

E l’Italia accettò. Anche solo per mettere partite nel motore, per riorganizzare una squadra che Sacchi desiderava plasmare sotto il segno del suo credo, fino all’ossessione. Folle o visionario, ognuno poi si è fatto la sua idea.

Comunque, in quell’estate si era ancora agli albori della sua Italia, costruita dal carisma di Franco Baresi e con giocatori interessanti come Mannini, Bianchi, Di Chiara. Lo stesso Billy Costacurta che Sacchi conosceva alla perfezione, e che con Vicini aveva trovato poco spazio, divenne subito il perno del nuovo corso. In avanti, la sorpresa e novità più intrigante di tutte: l’attaccante del Foggia, Beppe Signori.

Come funzionava però il torneo? Gli azzurri dovevano affrontare Usa, Portogallo e Irlanda (le quattro e uniche partecipanti) in un girone all’italiana. E dopo il match inaugurale tra Stati Uniti e irlandesi – 3-1 per i padroni di casa -, gli azzurri affrontarono al debutto il temibilissimo Portogallo di Luis Figo e Fernando Couto, di Vitor Baia e Joao Pinto.

Si giocava a New Haven e la squadra era sperimentale, il che giustifica ritmi blandi, da fine stagione, e lo spettacolo non poté che perdersi, sciogliersi sotto la calura di metà primavera e tradursi in uno 0-0 con tanto di doppia espulsione: quella di Donadoni grida ancora vendetta.

Nella gara successiva, ecco l’Irlanda, tutta nuova e tutta rifatta per l’occasione. Sacchi osò, ancora. Senza l’assillo del risultato, intanto diede spazio e corsa a Carboni; in mezzo chance a Galia della Juventus e sulla sinistra ecco proprio Beppe Signori, con la coppia d’attacco formata da Gigi Casiraghi e l’attuale commissario tecnico azzurro, Roberto Mancini, a Italia 90 quota zero minuti in campo. Fu vittoria. Veramente un trionfo.

Un 2-0 netto con Signori a inaugurare e Costacurta su rigore a chiudere le danze. Fu anche l’esordio in nazionale di Giorgio Venturin e qui voliamo fortissimo di nostalgia: un anno prima, vinceva il campionato di Serie B; un anno dopo, a Boston, l’azzurro Italia.

La finale

Oh, in tutto questo c’era la cavalcata straordinaria degli Usa. Che dopo la vittoria nella partita inaugurale con gol di McCarthy, Balboa e Ramos, si erano ripetuti persino contro il Portogallo: Roy Wegerle sul lungo assaggio di Murray, attraversò tutta la difesa lusitana e batté Adelino Barros con un sinistro chirurgico. Nota a margine: mentre gli Stati Uniti vincevano, in America la partecipazione alle partite di Soccer era praticamente minima. Solo 10402 tifosi sugli spalti del Soldier Field di Chicago.

Altra storia per le partite dell’Italia, che richiamavano tanti connazionali ormai radicati nel territorio. Ecco perché non sorpresero i 34mila di Foxborough contro l’Irlanda, ecco perché allo stesso Soldier Field, nell’ultima partita tra azzurri e padroni di casa, i tifosi di fatto si triplicarono. Era il 6 giugno e ci si giocava il torneo: l’Italia a quota 4 punti, gli States a quota 6. Bastava un pareggio e un pareggio arrivò, nonostante il vantaggio e le speranze italiane firmate – guarda un po’ – Roberto Baggio, al primo gol del torneo.

Dopo due minuti, il Divin Codino superò tutti e soprattutto il portiere; John Harkes, dopo una partita dura, brutta e arcigna, realizzò alla fine il gol della vita: un tiro da lontano, esattamente venti minuti dopo, portò sull’1-1 il risultato, tenuto in piedi dagli americani per tutta la partita.

Senza troppi rimpianti, l’Italia si mise alle spalle la U.S. Cup del 1992. Era uno show, diede spettacolo e specialmente con chi aveva vissuto meno la maglia della nazionale. Gli Stati Uniti colsero il segnale che attendevano da tempo: il soccer non s’improvvisa. E certe dinamiche del mondiale furono esattamente riprese da quell’estate del 1992. Quella della Danimarca, sì. Ma pure di John Harkes.