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La chiamano Pazza Inter. E un motivo ci sarà, no? Ecco: ce n’è più di uno, ma uno più di ogni altro. E’ il 1993 e la squadra che sta costruendo il presidente Pellegrini può essere potenzialmente tutto, ma si ritrova a essere clamorosamente niente. Ma no, forse è ingiusto definirla così: è ad altezza Coppa Uefa, allo stesso tempo da zona retrocessione, da lotta con le unghie e con i denti eppure senza mai mostrarsi provinciale. Restando regale, con due volti. Lo strano caso del dottor Jekill e mister Hyde sciolto con l’immagine di Beppe Bergomi che alza la seconda coppa più importante d’Europa. Strameritatamente.

Ma perché l’Inter era un’altalena, in quella stagione? Cosa c’era di diverso, o semplicemente di mancante? Partiamo dalla base, e cioè dalla guida tecnica. I nerazzurri, già un anno prima, l’avevano affidata a un maestro della tattica, Osvaldo Bagnoli. Era l’uomo dei miracoli: ne aveva fatto uno clamoroso al Verona, era stato amato anche al Genoa. E dopo una carriera ad attendere la grande chiamata, finalmente quest’ultima era arrivata. A Milano, a pochi chilometri da Bovisa, casa sua, quartiere settentrionale cella città. Dopo aver sfiorato alla prima stagione la vittoria – arrivò un secondo posto in rimonta, grazie soprattutto a Totò Schillaci e Ruben Sosa, meraviglioso -, Bagnoli era chiamato alla conferma. Anzi: alla consacrazione. Del resto, aveva portato a casa un successo enorme con gli scaligeri, cosa poteva essere (almeno) lottare per lo scudetto con questa super Inter?

Il mercato faraonico e l’inizio di stagione

Super Inter” poiché rinforzata. Nell’estate del 1993, il presidente portò alla Pinetina gli olandesi Jonk e Bergkamp, ritenuti tra i migliori prospetti del calcio mondiale. In particolare il secondo: era un potenziale fuoriclasse, e in nerazzurro farà comunque la sua parte, a prescindere da quel terrore di volare che portò a uno dei soprannomi più iconici di tutti: l’olandese Non Volante. Ecco: a completamento dell’organico, l’Inter preparò la strada per l’arrivo di Festa, Dell’Anno, lo stesso Paganin. Sembrava una missione possibile, si rivelò una polveriera impossibile da mettere a posto. Ma perché?

Da settembre a novembre, l’Inter non partì neanche in maniera così complicata. Una vittoria sulla Reggiana, prima del Derby all’undicesima giornata aveva perso soltanto una volta, con il Cagliari al Sant’Elia (rete di Dely Valdes). Dal Derby del 7 novembre, tuttavia, la situazione inizia a incrinarsi: Panucci e Papin lanciano la scalata del terrore interista. Poi arriva il ko di Marassi con il Genoa e la prima sconfitta interna, stavolta contro l’Atalanta. E’ la fine del girone d’andata, e i presagi di una stagione interlocutoria ci sono tutti. Presto si faranno certezza, intanto Bergkamp continua a non incidere. O meglio: a segnare solo su calcio di rigore, almeno in campionato.

Già, perché andrebbe fatta una distinzione netta in questa stagione interista: da una parte gli insuccessi in Italia, dall’altra la super corsa in Europa, e precisamente in Coppa Uefa. Il protagonista – e chi l’avrebbe detto, guardando il campionato – è lo stesso Dennis Bergkamp: appare ogni volta più indemoniato, dando così ragione (almeno in parte) a chi aveva investito tanto sul suo conto. I nerazzurri superano Rapid Bucarest (una sforbiciata dell’olandese, stavolta sì volante), mentre nel turno successivo è l’Apollon a subire l’onta dell’eliminazione. Un match indimenticato, più che indimenticabile. Il motivo? L’Inter perdeva per infortunio uno dei suoi migliori giocatori: Nicolino Berti, perno indissolubile del centrocampo.

Il percorso in Europa

Con il dispiacere di un attimo, l’Inter si ritrovò però a dover fronteggiare la paura di essere risucchiata in una corsa non sua, che non aveva nelle corde e nella storia. La Coppa Uefa era una dolce distrazione, vissuta con la spensieratezza di un hobby produttivo: agli ottavi di finale, l’Inter affrontò il Norwich e lo batté, imponendosi nell’andata e nel ritorno, ancora una volta con Bergkamp protagonista e con un Ruben Sosa sontuoso. Non solo i nerazzurri riuscivano infatti a esaltarsi su territori inesplorati, anche lo stesso Bagnoli, l’uomo del tenere e ripartire, sembrava scappare dallo spettro esonero con la prestazione infrasettimanale. Arrivato ai quarti, con febbraio appena toccato, il grande condottiero del Verona scudettato viene infine esonerato. Al suo posto, la scelta è particolare: c’è Gianpiero Marini, ex bandiera dello scudetto 1980. Tampona la ferita, ma non la copre. Né ricuce uno spogliatoio spaccato.

I risultati in campionato, infatti, peggiorano di settimana in settimana: l’Inter, dal 6 febbraio 1994, perde contro Lazio, Piacenza e Torino, pareggiando in casa con il Napoli. A marzo, 4-1 subito dal Parma e nuova sconfitta nel Derby, prima di altri due ko consecutivi con Genoa (a San Siro) e Juventus a Torino. Il finale si preannuncia horror, ma un ritorno cambia drasticamente la situazione: c’è di nuovo Nicolino Berti, decisivo contro il Lecce e fondamentale nell’ultimo match interno, con la Roma (2-2), che comunque non dà certezza di permanenza in Serie A a Marini e i suoi. Ah, e in Europa? Cambiamo ancora scenario: Marini qui si conferma esattamente come Bagnoli, ai quarti i nerazzurri affrontano un super Borussia Dortmund, per due partite da pelle d’oca.

Zenga si esalta, Jonk lo supera. A Dortmund, è 3-1 per i nerazzurri: doppietta dell’olandese e chiusura di Shalimov, lanciato in contropiede ancora da Ruben Sosa. Al ritorno, l’Inter rischia ma tiene il risultato: la rimonta giallonera si compie fino al sussulto di Manicone. In contropiede, il tocco sotto vale un pezzo di storia dell’Inter. E di quella Coppa Uefa, che si decide in una semifinale thriller contro il Cagliari (a sua volta bravissimo a superare la Juventus di Trapattoni). I nerazzurri affrontano i sardi dopo 5 sconfitte consecutive e – alla vigilia – i favoriti sembrano proprio i rossoblù. Mai sottovalutare la splendida follia interista: è la prima regola per capire questa squadra.

Un finale da pelle d’oca

A Cagliari, il 30 marzo, l’Inter viene sconfitta per 3-2: segnano Fontolan e Ruben Sosa, ma Oliveira è superbo. Criniti e Pancaro bravi a completare l’opera. Si decide tutto a San Siro, dove si scrivono settimanalmente pagine difficili per il tifo interista: ancora Bergkamp e ancora su rigore. Poi Wim Jonk, come sempre. 2-0 per l’Inter, che vuol dire finale. E affrontare il Salisburgo per salvare la stagione.

Ecco, a proposito di salvezze: ricordate dov’eravamo? Ma certo: all’ultima giornata, cioè all’ultima spiaggia. E’ il primo giorno di maggio, è lo stadio Atleti Azzurri d’Italia e l’Inter deve vincere o sperare comunque in un pari tra Parma e Piacenza, nel derby del ducato. A Bergamo arriva un ko pesante, merito di una splendida Atalanta; a Parma è 0-0 e la squadra di Marini sì, è salva. E soprattutto focalizzata sulla finale di Coppa Uefa.

All’andata, a Vienna, l’uomo del destino veste il sorriso di Nicolino Berti, tornato quando tutto riprese a girare: una rete al 35′ regalò all’Inter la certezza di giocarsela al massimo al ritorno. Al ritorno, un’ora di gioco più tardi, Jonk chiuse i conti. E regalò una Coppa Uefa assurda, insperata, meravigliosamente metaforica di quanto pazzo possa essere il calcio. Di quanto pazza sia sempre stata l’Inter.