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L’infanzia racconta sempre tanto di ciò che sei, ma come nient’altro spiega ciò che diventerai. O meglio: chi diventerai. Inteso come uomo, donna, essere umano. Osvaldo Bagnoli ha preso le difficoltà di un’infanzia povera, di come in Italia ce n’erano troppe, e l’ha trasformata in propulsione verso la gloria. Ha sempre avuto la pratica del fare, la teoria del non mollare. Era un tecnico ruspante: orgoglioso d’aver fatto il percorso dal basso verso l’alto, senza intravedere scorciatoie lungo il cammino. E alla Bovisa, aveva imparato a giocare a piedi nudi.

“Mio padre si chiamava Aristide, era nato a Cremona e si era trasferito a Milano. Lavorava alla Fargas di Novate Milanese, dove costruivano stufe. Mia madre Vittoria era orfana, venne a Milano da certi suoi cugini e così conobbe papà. Abitavamo in Bovisa, quartiere operaio. La casa era in via Candiani. Stavamo in due stanze e avevamo il bagno fuori, sul ballatoio”.

Osvaldo Bagnoli

Da calciatore

E correva, Osvaldo. Nell’Italia degli anni Cinquanta dove tutto improvvisamente diventava possibile. Persino a un ragazzino di periferia agguantare i sogni di una vita piena di emozioni. Mentre si preparava a vincere la categoria Allievi, a 14 anni Bagnoli lavorava già in fabbrica: cuciva le cinture per i pantaloni. Poi passò a fare il garzone in un’azienda di sanitari. Tre o quattro anni più tardi, entrò in un’officina meccanica e lo misero al tornio. La sera, gli allenamenti: giorno dopo giorno, testa bassa e migliorare. Finché non lo notò il Milan: una stagione nelle giovanili, e dal ’55 due stagioni da riserva.

Sul finire degli anni Cinquanta, i rossoneri lo cedettero al Verona e lì conobbe sua moglie Rosanna. Il racconto alla Gazzetta è di una tenerezza unica: “All’epoca si facevano delle festicciole in casa, si ascoltava la musica: è andata così”. Ed è andata con lei, sempre al suo fianco. Soprattutto in quella prima, dolorosa stagione in Veneto: Osvaldo si ammalò dopo poche settimane per una brutta pleurite. Rimase sette mesi fermo, rischiando di chiudere con il calcio. Ne uscì di cuore e coraggio, soprattutto con una ‘terapia’ sui generis: quaranta giorni al lago, quaranta in montagna. Quando si riprese, giocò 38 partite su 38. Una furia.

Dall’Hellas all’Udinese, poi l’Italia intera: Catanzaro, Spal, Udine ancora e infine Verbania. Andò lì perché gli promisero che a fine carriera gli avrebbero dato il posto di una legatoria, sebbene sognasse di andare a lavorare alle Officine Mondadori di Verona e di avere il posto fisso.

Non andò a così: iniziò ad allenare. Proprio a Verbiana, su intuizione di Carlo Pedroli. Che lo consigliò immediatamente alla Solbiatese, stessa categoria. Durò otto giornate: non sopportava che il presidente entrasse negli spogliatoi mentre stava parlando. Fece capire sin da subito di che pasta era fatto.

La grande cavalcata verso lo Scudetto più bello

Quella parola (Scudetto n.d.r.) la pronunciammo per la prima volta all’ultimo dell’anno. Un gruppo di giocatori era andato a Cavalese, in montagna, a passare San Silvestro con mogli e fidanzate. Io no. Giorni dopo, mi riferirono che Piero Fanna al brindisi aveva proclamato: «Possiamo vincere lo scudetto». Allora in spogliatoio feci un discorso: «Ragazzi, anch’io comincio a crederci, però nelle interviste dobbiamo continuare con la solfa della salvezza prima di tutto».

Osvaldo Bagnoli

Il primo, grande passo fu al Fano: era Serie C2 e il passaggio a ritroso non lo scalfì. Amava allenare. Soprattutto giocatori giovani. Specialmente in situazioni in cui sapeva di poter incidere. Il Fano colse la Serie C1 al primo anno, poi Bagnoli andò dritto a Cesena guadagnandosi il ritorno in Serie B.

Stava per arrivare in A: la sfiorò davvero, per un passo. Gli ‘toccò’ accettare il Verona: aveva lo stesso obiettivo, ma mancava un motivatore, un uomo (alle volte anche rude) che si facesse rispettare. Perché questo è stato soprattutto il primo Bagnoli: attenzione e partecipazione, ma in particolare gruppo. Faceva squadra. E le lanciava in altissimo.

Ci mise nulla, arrivò subito nella massima serie: al primo anno tra i grandi, conquistò un quarto posto e sfiorò la Coppa Italia dopo aver battuto la Juventus nella finale d’andata di Coppa Italia. Ovviamente, per volare così in alto, quel Verona doveva avere qualcuno di speciale: la classe era tutta di Dirceu, fantasista brasiliano che Bagnoli non aveva neanche chiesto. Fu bravo, il tecnico, a mettere insieme materiale sopraffino, creando – anche qui – una squadra vera. Fatta di “scarti”, sì. Ma con tanto talento.

Una filosofia che raccolse consensi e creò una visione atipica del calcio e della costruzione di una squadra. Gianni Brera ne colse, come spesso gli capitava, tratti da innovatore, da pensatore differente: lo chiamava Schopenhauer, forse per la vena pessimista, forse per il carattere chiuso. Di sicuro, per la diversità sostanziale da tutti gli altri componenti di quel banale mondo del pallone.

Nel 1984-1985 la squadra, con l’arrivo di Briegel e Larsen, va in testa sin dai primi match, conquistando il primo e unico scudetto della storia scaligera. Bagnoli è il volto di quello storico successo e da lì prenderà il soprannome di Mago della Bovisa. Al settimo cielo per aver vinto la sua scommessa: del resto, l’Hellas era andato a pescarlo ancor prima che ottenesse la promozione con il Cesena. E in Emilia si meravigliarono della decisione di rinunciare alla Serie A per tornare in Veneto: l’aveva fatto per la moglie e le figlie, voleva riportarle lì. Il destino volle trasportarlo dove aveva meritato di stare. E lo scudetto?

Così fu.

Gli ultimi anni, poi l’Inter

Quando ero all’Inter, ogni mercoledì il presidente Pellegrini mi invitava a cena e la sua signora mi chiedeva di scrivere qualcosa: un autografo, una dedica. Venni a sapere da un dirigente che lei interpretava la scrittura e che diceva che forse ero uno che non poteva comandare. Di recente ho avuto la soddisfazione di leggere un’intervista a Ernesto Pellegrini, il mio presidente all’Inter. Gli hanno chiesto qual è stata la cosa che non rifarebbe e lui ha risposto: “Licenziare Bagnoli, che è stato con Trapattoni il più bravo allenatore che io abbia mai conosciuto

Osvaldo Bagnoli

L’anno successivo, la storia gli si ritorce contro: non solo il Verona non riesce a ripetersi – sanguinosa, soprattutto, l’eliminazione in Coppa Campioni contro la Juventus -, ma addirittura arriverà decima in campionato. Bagnoli rimarrà al Verona fino al 1990, conclusa con la retrocessione in Serie B (la società implose, anche economicamente) e con un ciclo irripetibile per una società come l’Hellas.

Non era finita, però. Non per mister Bagnoli. Che accetta la proposta del Genoa, con il quale raggiunge un quarto posto storico: fu il miglior risultato dei liguri del dopoguerra. In Coppa Uefa, nell’anno successivo, portò il Grifone in semifinale: fu l’Ajax a sopprimere il sogno, nonostante la vittoria ad Anfield contro il Liverpool. In campionato arriverà però un quattordicesimo posto: troppo poco per continuare, troppo forte la chiamata dell’Inter.

A proposito dei nerazzurri: il primo dei due anni all’Inter, ottenne un secondo posto e tanta speranza per il futuro. Nella stagione successiva, ecco Jonk e Bergkamp: acquisti scudetto. Peccato che i due andarono quasi subito a scontrarsi con il burbero Bagnoli. I risultati fecero il resto: a febbraio, l’esonero dalla Pinetina. E il saluto alla panchina. E alle sue storie.