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Un cervello per domarli. E un destro – ma anche un sinistro – che disegnava calcio, semplicemente.

Demetrio Albertini è stato il metronomo per eccellenza, nel periodo in cui in Italia si fabbricavano numeri Quattro, quelli da regia. E allora, ecco quel ragazzino di Besana in Brianza, un paesino di quindicimila abitanti, praticamente in collina. Chissà se ha aiutato Demetrio con le traiettorie.

Di sicuro, l’ha lanciato in altissimo, da quella manciata di chilometri da Monza al tetto del mondo. Passando per Barcellona e Atletico Madrid, Lazio e Atalanta. Ma è il Milan la sua squadra del cuore, senza dubbio.

A soli 14 anni, i rossoneri lo notano e lo portano nelle giovanili. Ai tempi era usanza seguire il lavoro degli oratori locali, che organizzavano tornei – lo fanno tutt’ora – .e portavano in dote sempre più talenti. Il giro di voci faceva il resto e l’ha fatto anche nel caso di Demetrio. Un dieci, ai tempi. Pronto a trasformarsi in regista, da 300 palloni toccati a partita. Come quello sognato da Arrigo Sacchi al suo arrivo in rossonero. Fu lui a trovarsi questo talento tra le mani, lui a indirizzarlo. Nacque una grande storia.

Da Sacchi a Capello: la vita al Milan

A soli 17 anni arrivò infatti il debutto in Serie A nella stagione 1988-1989, precisamente il 15 gennaio 1989. Era Milan-Como: derby lombardo per un ragazzo nato e cresciuto in quel perimetro lì.

Sacchi aveva visto piedi buoni e polmoni puliti: l’aveva subito lanciato in campo, salvo poi rendersi conto: il ragazzo si farà solo se gli verrà data l’occasione di crescere. A inizio della stagione 1990-1991 va in prestito al Padova, in Serie B. Lì cresce e gioca per la prima volta con continuità. 28 gare e 5 gol alla fine del campionato.

Tutto questo per? Tornare al Milan, ovviamente. Dove diventa subito fondamentale con il cambio in panchina: Capello lo inserisce in maniera sempre più continua nella stagione 1991-1992. Risultato: scudetto senza incrociare mezza sconfitta. Albertini inizia da lì un percorso netto, incredibile, meraviglioso.

Giocando per 11 stagioni in un Milan che è al massimo della sua storia, che cade e si rialza, che è semplicemente la squadra più forte del mondo e tra le migliori della storia. Ovviamente, a quel palmarés attinge a piene mani: il totale di Albertini recita cinque scudetti di cui tre consecutivi dal 1992 al 1994, una Coppa dei Campioni, una Supercoppa Uefa e 3 Supercoppe Italiane.

Il Milan mi ha fatto crescere come calciatore e come uomo. Mi ha visto entrare cucciolo e mi ha salutato 30enne affermato, sposato, padre. Io, insieme ai compagni, ho dato credibilità al progetto“, ha raccontato solo qualche mese fa a La Gazzetta dello Sport.

Per Albertini è stato fondamentale il senso di appartenenza: cresciuto a pochi chilometri dal luogo in cui tutto è diventato enorme e concreto, la responsabilità è stata sicuramente maggiore rispetto a tanti altri compagni. “Circa 15 di noi erano milanesi cresciuti nel settore giovanile, io mi portavo il problema a casa, non so se mi spiego… Che orgoglio“.

Orgoglio da 406 presenze, di cui 293 in Serie A e 28 gol totali.

L’addio e le esperienze in Spagna

31 anni e le vele ancora spiegate. Come mai finì con il Milan? Chiedere a Carlo Ancelotti, ma anche ad Andrea Pirlo.

L’arrivo del bresciano fu decisivo per l’addio di Demetrio, che si ritrovò improvvisamente senza posto in squadra. Pirlo era un fiore pronto a sbocciare: una volta inquadrato in quel ruolo definitivamente, lo stesso Albertini capì che non ci sarebbe stato più posto. Ecco perché sfruttò l’occasione della vita: via in prestito, ma non in Italia – dove mezza Serie A lo stava cercando -, bensì in Spagna. La scelta fu di cuore: i Colchoneros, l’Atletico Madrid, dove ottenne 28 presenze e 2 gol nella Liga, in una stagione molto positiva e nella ciudad ancora ricordata dai tifosi più accaniti.

Sarebbe rimasto volentieri, a Madrid. O comunque avrebbe voluto decidere lui il proprio destino. E invece? Invece finì in un’operazione ormai chiusa con la Lazio: da una parte Pippo Pancaro che passava in rossonero, dall’altra Demetrio a Roma, in maglia Lazio.

Durò una stagione; vinse una Coppa Italia. La scintilla non scoccò mai. E nella stagione successiva andò all’Atalanta, dove con Delio Rossi le incomprensioni furono tali da salutare tutti anzitempo.

Destinazione: Barcellona. Ancora la Spagna nel cuore, e un amico come Frank Rijkaard ad aspettarlo. Durò un anno, poi la decisione: a 34 anni l’addio al calcio. E nel 2006, San Siro tornò ad omaggiarlo.

Nota a margine: in mezzo a tanti sorrisi, se c’è una storia di rimpianti non riguarda certamente il Milan. Il primo porta negli Stati Uniti, nel 1994: il suo Mondiale più bello, con gli assist a Massaro contro il Messico e quello a Roby Baggio con la Bulgaria in semifinale (più il rigore segnato al Brasile in finale); il secondo è ovviamente l’Europeo del 2000, con Dino Zoff come CT. Albertini è ancora una volta l’uomo-assist degli azzurri: altri due, e pesantissimi.