Vai al contenuto

Si era aperto con lo splendido omaggio della Curva Nord all’Enrico V di William Shakespeare, il derby numero 196 della storia.

La Lazio lo ha condotto sugli spalti e poi sul campo, dominando col possesso palla una Roma incapace anche solo di ripartire in contropiede – se non con Belotti in un paio di circostanze.

Derby infuocato

La squadra di Sarri, le cui (pesantissime) assenze di Vecino a centrocampo e Immobile in attacco costringevano fin dal calcio d’inizio ad una gara di predominio territoriale – Cataldi, infatti, è uomo di palleggio e molto meno fisico dell’uruguaiano; Felipe Anderson attacca poco la profondità, preferendo invece il fraseggio spalle alla porta –, ha visto venire la partita dalla propria parte quando Roger Ibanez, con uno sgambetto assai ingenuo a centrocampo, è stato espulso dall’arbitro Massa al minuto 32 (per doppia ammonizione).

La partita si è scaldata, un quasi allungo di Pedro sulla fascia con Romagnoli a terra e la Roma ferma da qualche secondo rischiava di far saltare i nervi di un derby elettrico dagli spalti al campo e viceversa. Mentre la Sud e la Nord si rispondevano a vicenda con cori, striscioni di sbeffeggio, fischi e applausi, in campo i 21 calciatori se le davano di santa ragione.

È stato un derby agonisticamente splendido, magari non a ritmi esaltanti – ricordiamo che entrambe venivano dall’impegno esterno europeo – ma tesissimo, vibrante come una corda di chitarra. E la Lazio, quando tutti si aspettavano il contrario, ha saputo suonarla alla grande, questa corda. Ha saputo muoverla a proprio piacimento, iniziando la ripresa ancora meglio di come aveva iniziato la partita. Sono arrivate due grosse chance con Felipe Anderson e Luis Alberto (tiro da fuori respinto da Rui Patricio il secondo, botta a colpo sicuro da due passi su sviluppo da corner la prima).

Nel frattempo Dybala aveva abbandonato il campo tra lo scetticismo generale – tanto dei romanisti quanto dei laziali. Entrava Marcos Llorente, braccetto di sinistra che uscirà a 10’ dalla fine per El Shaarawy, nel disperato tentativo di riprendere una partita ormai persa.

Eppure la Roma, dopo il gol (splendido) di Zaccagni al 65’ – rasoiata alla sinistra di Rui Patricio a giro su assist di Felipe Anderson – aveva reagito subito, siglando il pareggio appena un minuto dopo. Il VAR dopo una rapida revisione glielo aveva tolto: Smalling si trovava infatti in fuorigioco sul colpo di testa di Mancini. Questo rimarrà anche l’unico vero e pericoloso affondo dei giallorossi nella trequarti biancoceleste nell’arco dei 99 – nove di recupero tra primo e secondo tempo – minuti.

Troppo poco per una squadra che ad inizio anno – si diceva – aveva addirittura ambizioni scudettate.

Un nuovo Sarri

La Lazio invece, dopo la sconfitta dell’Inter in casa con la Juventus, è seconda in classifica. Merito soprattutto di un allenatore che a Roma si sta mostrando umile e creativo, disposto anche a qualche concessione sul proprio credo tattico pur di portare a casa il risultato.

Nessuna squadra come la Lazio, con quello di ieri, ha ottenuto 16 clean-sheets su 27 partite di campionato – solo la Juventus ha lo stesso numero di porte inviolate.

Merito di Provedel, Casale e Romagnoli (a dir poco peperino nel post-partita, come lecito che sia), certo, ma anche di una squadra che ha imparato a difendere di reparto, e ad attaccare allo stesso modo.

La sensazione è che la Lazio, con qualche ricambio in più, il prossimo anno possa davvero puntare a traguardi nobilissimi di classifica. Molto dipenderà dal piazzamento finale, che al momento però la vede a +5 dai cugini quinti, a +2 dall’Inter a +4 dal Milan – tutte squadre nei confronti delle quali ha il vantaggio degli scontri diretti. Soprattutto, a differenza di queste, la Lazio ora ha una sola competizione da giocare.

Mica poco, per un allenatore che da inizio anno non fa che ripetere l’antifona sull’importanza di una partita a settimana. Sarri ha fatto la sua scelta: ha scelto il campionato. Come Enrico V, ha sacrificato tutto «per il popolo laziale». Roma è biancoceleste.