Molti associano il suo nome a quello di Michael Jordan, anzi per la verità molti lo ricordano come l’aiutante della stella che ha portato i Bulls a vincere 6 titoli negli anni Novanta. Invece Pippen è stato molto di più su un campo da basket, è risultato un atleta indispensabile per rendere grande quella Chicago, un giocatore umile e un ottimo compagno di squadra. Un uomo capace di unire il gruppo e di creare una mentalità vincente, pur senza avere dalla propria parte i favori del pronostico: questa è la sua storia, cominciata con alcune difficoltà, ma conclusasi nel migliore dei modi.
L’inizio non semplice e il college
Primo di dodici figli (tra fratelli e sorelle), Pippen nacque il 25 settembre 1965 ad Hamburg, in Arkansas, una cittadina di tremila anime. La sua vita, così come quella della famiglia, fu sconvolta da due eventi: il primo riguardò il padre, costretto alla sedia a rotelle da un ictus, mentre il secondo riguardò il fratello Ronnie, il quale rimase paralizzato dopo una mossa di wrestling “subìta” da un compagno di classe, un bullo che lo aveva preso di mira.
La famiglia Pippen, per altro, non navigava nell’oro. Sua madre, Ethel, fu dunque costretta a lavorare ulteriormente per provare a mantenere i figli, con Scottie che provò a darle una mano in qualche modo. Poi, scelse di intraprendere la carriera universitaria a Central Arkansas, sicuramente non uno dei college più famosi del Paese (e soprattutto non ebbe una borsa di studio). Venne inserito in un programma di studio-lavoro e, in particolar modo, passò diverso tempo a sollevare pesi – all’epoca era gracile – e a migliorare sul campo in allenamento. Grazie a coach Don Dyer, “DaPip” ebbe un’enorme crescita dal punto di vista delle cifre (da 4.3 punti e 3 rimbalzi del primo anno a 23.6 punti e 10 rimbalzi dell’ultimo), senza dimenticare la sua altezza (da circa 185 centimetri a 203).
Tra tutti i GM dell’Nba uno solo optò per visionare il prospetto dell’Arkansas di cui si parlava: Jerry Krause dei Chicago Bulls, una delle menti più brillanti nello scovare talenti. Krause rimase impressionato dal talento di Pippen e i diversi tornei estivi a cui prese parte Scottie fecero capire a tutti che sarebbe potuto essere un prospetto Nba. Alla fine, comunque, al Draft 1987 i Bulls fecero uno scambio con i Supersonics: alla numero 5 Seattle chiamò Pippen, girandolo subito a Chicago (in cambio di Olden Polynice), una scelta che fece felice sia Krause sia lo stesso Scottie. Quest’ultimo, ricordando ciò che era successo al fratello, firmò un primo contratto sostanzialmente garantito di 5 milioni in 6 anni. Insieme a lui, i Bulls misero le mani anche su Horace Grant. L’avventura poteva cominciare.
Il dominio con la canotta dei Bulls
Il resto della storia, almeno quella ai Bulls, probabilmente la conoscete. L’ala piccola dell’Arkansas, grande tifoso di Doctor J. in gioventù, ebbe un’ulteriore crescita esponenziale, anche a livello di cifre, nei suoi anni a Chicago. Partito dalla panchina per tutta la prima RS, riuscì ad imporsi già dalla stagione successiva, diventando un vero e proprio perno della squadra capitanata da Michael Jordan.
Chicago venne eliminata dai Pistons ai playoff dal 1988 al 1990, ma la strada intrapresa era quella giusta, come si poté intuire nei successivi anni. I Bulls, allenati da Phil Jackson (fautore dell’attacco triangolo), vinsero sei titoli in otto anni, ovvero dal 1991 al 1993 e dal 1996 al 1998: nel mezzo, come detto più volte su questi schermi, Jordan lasciò la pallacanestro per dedicarsi al baseball. Pippen, negli anni in cui agguantò gli anelli, scese solo una volta sotto i 17 punti di media nella post-season e solo in due occasioni sotto i 7 rimbalzi ad allacciata di scarpa: divenne un elemento imprescindibile, anche e soprattutto perché era il tuttofare della sua squadra.
In quegli anni, il suo minutaggio variava tra i 38.4 e i 41.5 di media: questo era giustificato anche dal fatto che poteva difendere su chiunque. Più nello specifico, riuscì a limitare (per quanto possibile) Magic Johnson alle Finals 1991, vinte per 4-1, e anche Clyde Drexler alle Finals 1992, vinte anch’esse per 4-2. E a proposito del primo titolo, Pippen scrisse nel suo libro “Unguarded” (scritto con Michael Arkush): “Il viaggio per arrivare lì era stato difficile, a volte quasi insopportabile, ma ognuna di quelle esperienze mi aveva reso più forte. Mi aveva reso un campione. Penso spesso al titolo del 1991 perché è il primo. (Phil Jackson) aveva continuato a farci credere in noi stessi. Ci aveva tenuti uniti, come fossimo una cosa sola”. Per altro, nel giugno 1991 ottenne finalmente l’estensione di contratto tanto desiderata: 18 milioni di dollari per ulteriori cinque anni.
Scottie, sostenitore del gioco di squadra, non mollò mai il gruppo, anche quando MJ decise di lasciare temporaneamente la pallacanestro giocata. Anzi, l’ala nativa dell’Arkansas si confermò il leader dei Bulls nel 1994 e 1995 (fino al ritorno di sua maestà), per quanto la sua Chicago non andrà oltre il secondo turno.
Famoso, però, è anche un episodio negativo legato a Pippen, ovvero quello che accadde in gara 3 della serie contro i Knicks (secondo turno di playoff 1994). Sotto 0-2 e con la partita sul 102 pari, Chicago ebbe l’opportunità di vincere la gara: coach Jackson affidò l’ultimo tiro a Kukoc, facendo perdere le staffe a “Pip”, il quale credeva di essersi meritato quella possibilità nel corso degli anni. Kukoc segnò quel tiro, mentre Scottie osservava dalla panchina (non era più voluto rientrare), un fatto che gli verrà rinfacciato per il resto dei suoi giorni.
MJ rientrò nella post-season 1995, all’inizio senza il successo sperato per i Bulls. Le paure e le critiche verranno spazzate dalle successive vittorie: con l’aggiunta di Rodman, i Bulls agguantarono altri tre anelli senza troppe difficoltà, battendo in rapida sequenza Supersonics (Finals 1996) e Jazz (1997 e 1998) e creando una vera e propria dinastia negli anni Novanta. E proprio nel primo atto della serie 1997 contro Utah, Pippen si rese protagonista di un altro evento che passò alla storia, questa volta dalla parte dei buoni: compì del sano trash talking nei confronti di Karl Malone (detto il Postino), il quale, distratto, sbagliò i due tiri liberi decisivi. La frase che gli disse in campo per fargli perdere la concentrazione? “I postini non consegnano di domenica”. Game, set and match.
Il rapporto con MJ
Pur avendo vinto tanto insieme, il rapporto tra Pippen e sua maestà Jordan risultò contorto. In più, Scottie rimase insoddisfatto dal documentario “The Last Dance”, rilasciato nel 2020 durante il periodo Covid: Pippen credeva che quel prodotto mettesse in luce solo i pregi di Jordan, costantemente sotto i riflettori, senza focalizzarsi abbastanza su ciò che il team aveva realizzato in quegli anni.
Nella sua già citata autobiografia, Pippen ha voluto mettere le cose in chiaro. “Michael si sbagliava – ha spiegato nelle prime pagine – Non abbiamo vinto sei titoli perché lui stava addosso ai compagni. Li abbiamo vinti malgrado lo facesse”.Allo stesso tempo però, Scottie ha avuto la lucidità e l’oggettività per riconoscere la grandezza di Jordan, a cui criticava solamente il fatto di non aver riconosciuto, a sua volta, quella dei compagni di squadra.
L’ala dei Bulls sapeva benissimo che MJ era il miglior realizzatore del team e che senza di lui non sarebbero arrivati così in alto, ma era altrettanto consapevole di quanto lui stesso aveva contribuito a creare la mentalità vincente di quella Chicago. In ogni caso, si creò un duo clamorosamente talentuoso ed efficace sul parquet, capace di vincere, insieme ai propri compagni, i sopracitati sei anelli.
Il passaggio a Houston e a Portland
Al termine della stagione 1997-98, quei Bulls vennero smantellati e Pippen cambiò aria dopo 11 intense annate. Venne ceduto agli Houston Rockets, ma, pur mantenendo medie più che interessanti, non raggiunse l’anello. Questo anche a causa di incomprensioni con il resto dei compagni di squadra, tra i quali figuravano nomi di spessore come Barkley e Olajuwon.
L’uscita al primo turno di playoff portò un altro cambiamento nella vita di Scottie, scambiato questa volta ai Blazers in cambio di Stacey Augmon, Kelvin Cato, Ed Gray, Carlos Rogers, Brian Shaw e Walt Williams. Con la maglia di Portland arriveranno più gioie, ma mai un titolo: Pippen condivise lo spogliatoio con Rasheed Wallace e proprio nel 2000, ad un passo dalle Finals, subì una sconfitta cruciale in gara 7 contro i Lakers, nonostante il buon vantaggio accumulato dai suoi Blazers, poi sprecato. La Los Angeles gialloviola inflisse altre due sconfitte a Portland ai playoff 2001 e 2002, entrambe al primo turno, mentre nel 2003 saranno i Mavs a giustiziare i ragazzi di coach Maurice Cheeks.
La chiusa
Scottie concluse la sua leggendaria carriera proprio con la maglia dei Bulls nell’annata 2003-04. Giocò solo 23 partite causa infortuni, senza che il team di Chicago raggiungesse la post-season. La sua maglia venne ritirata nel 2005, mentre nel 2008 scese in campo in Svezia e Finlandia per qualche gara di esibizione.
Ha dominato l’Nba negli anni Novanta, è stato inserito nella Hall of Fame e nella lista dei 50 migliori giocatori di sempre della lega cestistica più importante al mondo. È stato qualcosa in più di un semplice scudiero di MJ e ha vinto anche due medaglie d’oro con Team Usa, la prima nel 1992 e la seconda nel 1996. Considerando le sue umili origini, Scottie ha riscritto la propria storia nel miglior modo possibile.