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A leggere il titolo, sicuramente, molti di voi avranno storto il capo, pensando: “Ma questo cosa scrive”.

Tranquilli, non voglio convincervi che il giocatore preso in esame in questo articolo sia stato migliore di questo o quest’altro (sicuramente è così), ma dirvi perché, a mio parere, è stato quello che ha dato qualcosa di nuovo sotto l’aspetto dello spettacolo in campo, che tanto piace agli americani.

Si parla di Jason Williams, al mondo noto anche come White Chocolate, soprannome affibbiatogli dall’allora media relations assistant dei Sacramento Kings, Stephanie Shepherd, al suo primo anno di NBA: “Mi è venuto in mente quel nome per via del suo stile di gioco. Ha energia e vivacità. Il modo in cui fa le cose con la palla è incredibile. Mi ricorda lo street ball nei cortili delle scuole. Con l’eccezione di alcune azioni che ho visto da Pistol Pete Maravich, non ho mai visto nessun ragazzo bianco giocare come Jason”, disse.

Fin dal college, che per lui fu doppio (prima alla Marshall University e poi all’Università della Florida con i Gators) il talento pareva evidente, ma ancor più la voglia di rendere ogni giocata uno show. Nella sua stagione da senior fece registrare 17 punti e 6.7 assist di media, stabilendo il record della sua università con 17 assist in una singola partita. Sospeso per uso di marijuana, decise di rendersi subito eleggibile al draft, dove venne scelto con la n° 7 dai Sacramento Kings, chiudendo il primo anno portando una squadra fin li mediocre – ma che in roster aveva Chris Webber, Vlade Divac, Nick Anderson e Corliss Wiliamson – ai playoff, mettendo la sua maglia numero 55 nella top 5 delle più vendute della NBA. AL PRIMO ANNO nella lega!

Questo vi spiega dove vuole arrivare questo pezzo. I suoi passaggi spettacolari, spesso fuori equilibrio, no look, dietro la schiena, dietro la testa e persino di gomito divennero il suo marchio di fabbrica, quello per cui il suo nome è diventato leggendario, tra i parquet NBA e i campetti di tutto il mondo. I gesti di Williams portavano con sé una buona dose di rischio, per cui ad azioni da assoluto showtime seguivano palle perse a volte banali ma in momenti decisivi della partita. Alla gente che pagava il biglietto però, probabilmente, questo interessava il giusto.

La prima volta dell’elbow pass

Ciò che veramente cambiò la visione su Jason Williams, fu il rookie game dell’All Star Game del 2000, suo secondo anno nella massima lega professionistica di basket a stelle e strisce, dove lasciò la sua più firma autentica, rimasta indelebile nelle pagine del basket.

Non c’era penna stilografica, ma solo le sue mani e la sua fantasia, tradotto: the elbow pass – il passaggio di gomito. Lanciandosi in contropiede verso il canestro, finse un assist dietro la schiena per poi mandare il pallone nella direzione opposta colpendolo col gomito. Una giocata che lasciò tutti sbalorditi, compreso il destinatario del passaggio (Reaf LaFrentz), che non riuscì a concretizzare il magico assist con un canestro.

“L’ho fatto così tutti voi non mi chiederete mai più di farlo” – disse Williams al termine del match.

Fu il primo e non l’ultimo passaggio di questo tipo, ma quel segno distintivo fu per sempre suo e nessuno lo ripropose più in una gara ufficiale. In quel momento, a prescindere dalla carriera poi fatta da Jason, l’NBA si accorse di quanto questo talentuoso e un po’ folle ragazzo della Virginia fosse esaltante su un campo da basket.

Show al servizio di una squadra da titolo

Lo spettacolo, quello che tanto amava, per una volta servì anche alla vittoria di un titolo NBA, quello del 2006 con i Miami Heat. Dopo 4 anni a Memphis in una squadra senza grandi ambizioni, Williams ritrovò la magia delle sue giocate in Florida, agli Heat di Dwayne Wade e Shaquille O’Neal. La squadra veniva dall’aver sfiorato la finale nella stagione precedente, ma in quell’anno, con le addizioni di MW, Antoine Walker e Gary Payton (un altro che col pallone in mano faceva quello che voleva), Miami vinse il suo primo e storico titolo. Williams riuscì così a inserire il proprio nome nell’albo dei campioni NBA, non solo per via delle proprie giocate spettacolari, ma anche per quelle decisive. L’età, probabilmente, gli aveva dato un po’ più di consapevolezza e concretezza.

Jason Williams consacrò in quel momento la sua intera carriera, andata poi in calando con 2 stagioni agli Orlando Magic e il ritorno per poco tempo ai Grizzlies, con l’annuncio del ritiro il 18 aprile 2011. 13 anni totali di basket visionario, che ha visto livelli celestiali corrisposti a momenti di vuoto, quando le palle perse diventavano molte più dei passaggi smarcanti. Eppure, il personale ricordo di Jasone (così ci piaceva chiamarlo tra compagni di squadra quando si provava a riproporre il suo elbow pass) resta di un giocatore rivoluzionario per il basket mondiale, uno che probabilmente ha fatto vendere alle proprie franchigie molti più biglietti di quanti ne abbiano fatti vendere giocatori più quotati e vincenti.