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Se si parla di Nowitzki viene subito in mente il suo tiro in “fade-away” su una gamba sola, una conclusione immarcabile per l’altezza da cui partiva e per le mani dolci e fatate del lungo tedesco. Dirk ha cambiato a suo modo la pallacanestro e grazie al suo talento, coltivato con l’aiuto del suo mentore ed ex cestista Holger Geschwindner, ha vinto tanto nel corso della sua carriera. Al di là dei premi individuali (Mvp della RS nel 2007, Mvp di Eurobasket 2005 e delle Finals 2011), a renderlo davvero orgoglioso del suo percorso sono stati due eventi: l’argento ad Eurobasket 2005 ottenuto con la canotta della sua Germania e la vittoria dell’anello Nba nel 2011 – dopo quello sfuggito nel 2006. La sua è una storia di duro lavoro, di sudore in palestra e di grande forza di volontà e devozione nei confronti della pallacanestro, il tutto per raggiungere gli obiettivi che si era prefissato fin da quando ha preso la palla da basket in mano.

L’incontro con il maestro

Nato a Würzburg il 19 giugno 1978 da Jörg -Werner Nowitzki e Helga Bredenbröcker, Dirk ebbe come primo amore sportivo la pallamano. Per giungere all’ambito della palla a spicchi si dovette aspettare fino al liceo, quando divenne la star del Röntgen-Gymnasium. A quel punto la sua vita ebbe una prima svolta e ben presto Dirk entrò a far parte del DJK Wurzburg, allenato da Peter Stahl, la prima persona che aveva creduto in quel giovane ragazzo dai capelli biondi.

Il secondo tourning point avvenne nell’aprile 1994. A Schweinfurt Dirk era impegnato in una partita giovanile e, appena dopo di lui, sarebbe scesa in campo una squadra senior, nella quale militava Holger Geschwindner, ex cestista anche della nazionale tedesca. Holger rimase ammaliato dal talento del giovane Dirk e giunse ad una conclusione: sarebbe diventato il suo mentore, con il benestare della famiglia Nowitzki chiaramente.

I due lavorarono a stretto contatto e il nativo di Würzburg iniziò a migliorare a vista d’occhio, anche e soprattutto dal punto di vista del tiro. Le richieste dei college cominciarono a farsi sempre più insistenti, specialmente nel momento in cui Nowitzki si mise in mostra al Nike Hoop Summit (nel frattempo era anche impegnato nel servizio militare), distruggendo qualsiasi avversario sul parquet. Addirittura lo stesso Charles Barkley, ex studente di Auburn (1981-84), cercherà di convincere Dirk a frequentare la “AU”, mentre Rick Pitino provò a convincerlo a vestire la canotta dei Celtics.

Alla fine, nella valanga di offerte che si posero di fronte a Holger e Dirk (il mentore lo aiutava a prendere le decisioni più importanti, anche se l’ultima parola spettava a Nowitzki), la più appetibile risultò essere quella di Donnie e Don Nelson, a capo dei Dallas Mavericks. Il piano fu quello vincente: al Draft 1998 i Mavs scelsero alla numero 6 Robert Taylor e lo scambiarono (insieme alla scelta 19) a Milwaukee in cambio proprio di Dirk, chiamato dai Bucks con la numero 9. Un piano architettato alla perfezione dalla dirigenza di Dallas (nel 2000, per altro, Mark Cuban comprò la franchigia) che lasciò a bocca asciutta i Celtics, o quasi: nel trambusto generale, Rick Pitino e Boston scelsero un certo Paul Pierce, decisamente un bel ripiego in fin dei conti.

Il salto in Nba e le prime delusioni

Donnie e Don si precipitarono a casa di Dirk per essere sicuri che avrebbe compiuto ufficialmente il grande salto e la loro strategia andò a buon fine. Il tedesco disputò una prima stagione (per la verità minacciata dal lockout) senza raggiungere i playoff, ma da quel momento sbocciò un vero e proprio amore per la casacca di Dallas, la numero 41 (indossata in onore del suo idolo Barkley, con il numero al contrario rispetto alla 14).

In coppia con Steve Nash e Michael Finley, “Wunder Dirk” condusse i Mavericks alle Western Conference Finals nel 2003, per quanto a vincere saranno gli Spurs di Tim Duncan. Dirk, per altro, disputò solo 3 partite nella serie per un infortunio al ginocchio che lo limitò, anche se, a detta sua, avrebbe potuto giocare già in gara 4, ma coach Don Nelson non glielo permise.

E, anche quando Nash fu scambiato, Nowitzki rimase il punto di riferimento di Dallas – con cui giocherà fino al 2019, giurando amore eterno. Non mollò mai, tanto da portare i Mavericks alle Finals 2006, anche grazie all’aiuto di Jason Terry e Jerry Stackhouse: la squadra di coach Avery Johnson (subentrato nel 2005 a Don), dopo aver eliminato Grizzlies, Spurs (in sette gare) e Suns (contro Nash), si fermò però sul più bello, sconfitta dai Miami Heat di un Dwayne Wade in stato di grazia. In gara 3, Dallas era avanti per 2-0 nella serie e di 13 punti a poco più di 6 minuti dal termine delle operazioni, fino a quando D-Wade decise di ribaltare le sorti dell’incontro e della serie stessa. Dirk aveva per altro sbagliato un libero essenziale nel finale di gara 3 e nel quarto atto aveva tirato con un pessimo 2/14 dal campo, una delusione che, qualche anno dopo, si trasformò in motivazione.

E non fu l’unica. Nella stagione successiva, i Mavericks rimasero una delle squadre da battere e in Regular Season dimostrarono tutta la loro volontà di tornare alle finali. Vinsero 67 partite sulle 82 disponibili e al primo turno di playoff affrontarono la testa di serie numero 8, i Golden State Warriors di Baron Davis. Le certezze di Dallas si sgretolarono già nel primo match della serie: i Warriors si imposero per 85-97 in un successo che passò alla storia come uno dei più sorprendenti di sempre. E dopo che Dirk e compagni pareggiarono la serie, sembrava che tutto potesse ritornare alla normalità, ma Golden State piazzò un upset degno della March Madness e passò al turno successivo (2-4), lasciando gli avversari con un pugno di mosche in mano.

La redenzione

La fatica, le delusioni, le difficoltà e gli errori vennero spazzati via nell’arco di qualche anno. Stiamo parlando dei playoff 2011: questa volta i Mavs, guidati in panchina da coach Rick Carlise e in campo dal duo Nowitzki-Kidd (a cui si affiancarono Marion, Chandler e Terry), raggiunsero le Finals da sfavoriti. Dallas eliminò Blazers, Lakers e Thunder, prima di incontrare in finale proprio i Miami Heat di Wade, James e Bosh, una squadra costruita con l’obiettivo di vincere.

A fare da spartiacque fu il secondo atto della serie: la franchigia texana, sotto 0-1 e soprattutto sotto di 9 (81-90) a 4 minuti dal termine, cambiò marcia e riscrisse nuovamente la storia, questa volta dalla parte dei vincitori. Tripla di Kidd, canestro da due di Terry e poi si scatenò Wunder Dirk. Dopo altri quattro punti in fila, Nowitzki segnò prima la bomba del +3 e poi, nell’azione cruciale, superò Bosh in palleggio e appoggiò i due punti della sostanziale vittoria. Dallas chiuderà poi i conti in gara 6, ribaltando anche i pronostici e conquistando un anello clamoroso. Claudio Pellecchia, nel suo recente libro “Il grande Dirk Nowitzki, alla conquista della Nba”, ha ripercorso gli ultimi istanti di quella cavalcata. “La partita è ferma perché Spoelstra ha chiamato un altro time out, non si sa bene perché. Dirk ne approfitta per alzare il braccio sinistro e stringere il pugno verso i tifosi dei Mavericks, i suoi tifosi, che poi sono anche gli unici rimasti all’interno dell’arena: sul suo viso ora è dipinta la consapevolezza di tutto ciò che aveva fatto, come se avesse realizzato di botto da dove era partito e fin dove era arrivato. Tra poco uscirà dal campo e sparirà negli spogliatoi per stare un po’ da solo con sé stesso, poi Bill Russell gli consegnerà il trofeo di Mvp delle Finals e David Stern quello di campione Nba: è strano, ma gli sembra di averlo già visto, che sia tutto già accaduto. Il mondo, il suo mondo, non è mai stato così bello”.  

La chiusa

Quello appena descritto è stato l’unico titolo Nba vinto da Nowitzki. Nelle annate successive, infatti, i Mavericks non andarono oltre il primo turno di playoff e per Dirk stava arrivando il momento di cedere la sua corona di leader della squadra.

L’erede si palesò già nel 2018, un tale di nome Luka Dončić. I due instaurarono un bel rapporto sia dentro sia fuori dal campo, con Nowitzki che disputò l’ultima partita della sua carriera l’11 aprile 2019, guarda caso contro i San Antonio Spurs, rivali di una vita. Si ritirò e passò il testimone a “Luka Magic”, per quanto gli eventi recenti abbiano portato il talento sloveno a Los Angeles, sponda Lakers.

Il tedesco diede addio alla pallacanestro giocata dopo 1667 partite giocate in Nba e 35.223 punti realizzati tra Regular Season e Playoff, senza dimenticare le 14 convocazioni all’All-Star Game e l’introduzione nella Basketball Hall of Fame. Una vera e propria leggenda (21 stagioni a Dallas) che aprì le porte ai numerosi atleti europei che popoleranno (e popolano tutt’oggi) la National Basketball Association.