Basterebbe il palmarès individuale per spiegare chi è stato Allen Iverson sul parquet, eppure questo non riuscirebbe a raccontare che cosa abbia rappresentato per l’intera Nba e per le generazioni dell’epoca. Nonostante un fisico del tutto normale (183 cm per 75 kg), non aveva paura di nessuno, poteva battere chiunque in 1c1 dal palleggio e aveva un abbigliamento stravagante, almeno per l’epoca: Allen Ezail Iverson ha vinto il premio di Rookie dell’anno nel 1997, quello di Mvp della RS nel 2001 e per quattro volte il titolo di miglior marcatore, conducendo anche i suoi 76ers alle famosissime Finals 2001. Ha sempre espresso chiaramente il suo pensiero e ha rivoluzionato la moda dei tempi, sia in campo che fuori.
Gli inizi
La palla a spicchi non è stato l’unico amore giovanile di Iverson. Allen, nato il 7 giugno 1975 ad Hampton (Virginia), era in principio una promessa del football, ma, grazie a sua madre Ann, provò anche la pallacanestro e da quel momento nacque una vera e propria stella. A.I. non ebbe quasi mai al suo fianco una figura paterna (suo padre si dileguò prima che nascesse, il nuovo compagno della madre finì in prigione) e dunque, con il passare del tempo, diventò l’uomo di casa.
La vita nel ghetto non era facile e Iverson, dopo aver perso anche alcuni suoi amici, si ritrovò invischiato in una rissa all’età di 17 anni (1993). Al termine di questo fatto, il nativo di Hampton verrà condannato a 5 anni di carcere, anche se, a causa delle proteste in seguito al processo (le immagini non erano chiare e furono puniti solo quattro ragazzi di colore), Allen vi rimarrà solo 4 mesi.
Dopo averli scontati e dopo aver terminato l’high school, Iverson riuscì ad ottenere un’offerta dalla prestigiosa Georgetown: indossò la maglia degli Hoyas dal 1994 al 1996, prima di rendersi eleggibile al Draft – una scelta obbligata per aiutare la famiglia. Su questi schermi abbiamo già citato il talento di quella classe: Iverson sarà chiamato con la pick numero 1 dai Philadelphia 76ers, davanti a Marcus Camby (2), Shareef Abdur-Rahim (3), Stephon Marbury (4), Ray Allen (5), Kobe Bryant (13) e Steve Nash (15), tanto per citarne alcuni.
Il soprannome e la moda
Prima di ripercorrere le tappe della sua splendida carriera, è necessario fare una precisazione riguardo al suo soprannome. In America è pura normalità coniare un “nickname” per una determinata persona, specialmente se si parla di un atleta di alto livello o che è in quel momento una promessa dello sport professionistico.
Iverson non fece eccezione e venne soprannominato “The Answer”. In quegli anni, Jordan si era appena ritirato per la prima volta (1994 e 1995, prima del ritorno) e dunque l’Nba stava cercando un nuovo volto. La risposta migliore? Sicuramente Allen Iverson, che dunque fu chiamato per l’appunto “The Answer”, anche per la capacità di dare risposte concrete sul campo da basket.
La combo-guard classe 1975 rivoluzionò il mondo della palla a spicchi, fondendolo con la cultura dell’hip hop. A cavallo tra gli anni Novanta e Duemila divenne una vera e propria icona di stile e tutti, in campo e fuori, si ispiravano a lui. I suoi 183 centimetri, conditi spesso e volentieri dalle treccine in testa, spiccavano anche per gli accessori utilizzati: oltre ai tatuaggi, portava polsini, fasce al braccio e fascette in testa, un abbigliamento che per l’epoca era considerato stravagante. Ma, come detto, ad A.I. non interessava e, proprio questo suo modo di essere, portò persino l’Nba a cambiare stile, per quanto in prima battuta si cercava di ostacolare la sua stravaganza – persino in Europa e in Italia il “fenomeno” di Allen colpì in quegli anni.
A Philadelphia
Iverson disputò le sue prime undici stagioni con la canotta dei 76ers, dal 1996 fino a metà stagione 2006-07. E già al secondo anno fece la conoscenza di coach Larry Brown, che si sedette sulla panchina di Philadelphia per risollevare le sorti della franchigia. Nel 1999 Phila tornò ai playoff e lo fece in grande stile, raggiungendo le Eastern Conference Semifinals, sconfitta dai Pacers di Reggie Miller. Stesso discorso per il 2000, ma la strada intrapresa era quella giusta e i risultati non tardarono ad arrivare.
L’annata 2000-01 fu quella della definitiva svolta e quella in cui Iverson diede il meglio di sé al fianco di Dikembe Mutondo. Dopo una grande regular season (56-26 il record), i 76ers superarono di slancio Pacers, Raptors e Bucks, prima delle Finals contro i Los Angeles Lakers di Shaquille O’Neal e Kobe Bryant. I gialloviola vinsero serie e titolo, ma ciò che più si ricorda è la prestazione di pura onnipotenza messa in campo da A.I. in gara 1 a L.A.: 48 punti, 5 rimbalzi, 6 assist e 5 rubate in 52 minuti in campo. Una delle più grandi performance di sempre alle finali permise a Philadelphia di “rubare” il primo atto della serie, anche se poi i Lakers fecero la voce grossa e non diedero la possibilità agli avversari di riprendersi.
E l’immagine che tutti hanno chiara nella mente è una sola. A poco meno di un minuto dalla fine del supplementare di gara 1 (99-101 per Phila), Iverson si trova isolato davanti alla panchina dei Lakers contro Tyronn Lue, suo diretto avversario e che aveva compiuto un buon lavoro fino a quel momento: Allen lo studia, un paio di finte da fermo e poi la partenza a destra. Tutti sanno come andrà a finire. Il crossover in step back permette ad A.I. di trovare spazio per il tiro. Solo retina. E poi la vera “giocata” che è passata alla storia: Lue cade a terra, allora Iverson, prima di tornare in difesa, sostanzialmente lo scavalca passandogli sopra. Un gesto epico, un simbolo di una serie, purtroppo per i 76ers, persa.
Denver, Detroit e Memphis
Negli anni successivi, Iverson non avrà più l’opportunità di raggiungere le Finals con la maglia dei 76ers e dunque scelse di cambiare aria. A metà della annata 2006-07 avvenne la trade: Allen si trasferì a Denver, mentre Andre Miller, Joe Smith (e due future pick) compirono il percorso inverso. Iverson però non trovò fortuna, eliminato al primo round di playoff in due stagioni consecutive, pur avendo al suo fianco Carmelo Anthony.
Arrivò il momento di un altro scambio, attuato il 3 novembre 2008: da Denver a Detroit, in cambio di Chauncey Billups, Antonio McDyess e Cheikh Samb. Non riuscì a lasciare il segno e nel settembre del 2009 cambiò nuovamente canotta, firmando da free agent con i Grizzlies – un’avventura che durò un paio di mesi.
Il ritorno a Phila e il passaggio in Turchia
Il cerchio si chiuse dove tutto era iniziato. Allen pensò per un attimo al ritiro, ma decise di spostarsi nuovamente a Philadelphia, la città che aveva tanto amato e che lo aveva adorato qualche anno prima. Ebbe la possibilità, causa infortuni, di giocare solo 25 partite, prima di terminare anzitempo la sua stagione.
A quel punto, scelse di oltrepassare l’oceano e di sbarcare in Turchia, indossando la maglia del Besiktas. L’accordo era per un paio di anni (2010-12), ma la sua avventura durò nuovamente una manciata di partite, fermato da una calcificazione alla gamba.
Annunciò il ritiro il 30 ottobre 2013: la sua celebre maglia numero 3 venne ritirata da Philadelphia ed entrò nella Basketball Hall of Fame (2016), pur senza mai vincere un anello.
Episodi da ricordare
Il biglietto da visita con cui Allen Iverson si presentò alla sua prima stagione in Nba fu clamoroso: da rookie, mise a referto 23.5 punti, 4.1 rimbalzi, 7.5 assist e 2.1 rubate di media nelle 76 partite giocate. Un impatto degno delle migliori leggende e, non a caso, The Answer risultò immarcabile anche per sua maestà Michael Jordan: il 12 marzo 1997 infatti, A.I. mandò al bar MJ con un crossover e poi realizzò il jumper, un’azione che divenne storica.
Le sue cifre continueranno ad aumentare nel corso della sua carriera e addirittura raggiunse i 30 punti ad allacciata di scarpa in cinque stagioni (2000-01, 2001-02, 2004-05, 2005-06, 2006-07), tutte con la canotta dei 76ers.
Impressa nella mente è anche una sua conferenza stampa datata 2002, quando utilizzò la parola “practise” per ben 22 volte in circa un minuto, dopo che qualcuno lo aveva ripreso per aver saltato un allenamento. “We talkin’ about practise, man, Not a game”, queste parole rimbombarono per settimane nelle orecchie degli amanti della palla a spicchi, un altro momento storico.