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Un semplice ragazzo di 191 centimetri per 81 chili, nato a Johannesburg il 7 febbraio 1974, è stato in grado di dominare l’Nba dal 1996 al 2015. Ha due volte il titolo di Mvp della Regular Season con la maglia dei Suns (2005 e 2006), è stato un dispensatore di assist e non sbagliava un tiro libero neanche a pagarlo: Stephen John Nash, per tutti “Steve”, è stato una vera e propria leggenda della National Basketball Association, come testimonia il suo ingresso nella Hall of Fame nel 2018, pur non avendo mai vinto un anello. Per lui anche una parentesi da allenatore – dal 2020 al 2022 – sulla panchina dei Brooklyn Nets, questi ultimi guidati in campo da Durant, Irving e Harden.

“Quale sport scelgo?”

Probabilmente Steve si è fatto questa domanda più volte nel corso della sua giovinezza. Nato in Sudafrica da madre gallese e da padre inglese (calciatore e allenatore), crebbe in Canada ed ebbe fin da subito due grandi passioni: il calcio e l’hockey. Della pallacanestro non se ne parlerà fino a quando compirà 12 anni, ma l’amore viscerale per il nuovo sport che scoprì lo portò a lavorare sempre di più fino addirittura ad essere chiamato al Draft 1996.

Dopo aver frequentato la Santa Clara University dal 1992 al 1996 (sicuramente non un’università di riferimento nel panorama americano), i Phoenix Suns misero gli occhi sul talento canadese e se ne innamorarono, scegliendolo con la pick numero 15 al Draft 1996 – due posizioni più indietro rispetto a Kobe Bryant e nello stesso Draft di Allen Iverson e Ray Allen.

Le due avventure ai Suns

Nash disputò dieci stagioni complessive con la maglia della franchigia dell’Arizona: giocò dal 1996 al 1998 e dal 2004 al 2012, due avventure in cui ebbe una crescita esponenziale.

In un primo momento dovette ambientarsi, anche perché partì in quintetto solo undici volte nei primi due anni a Phoenix, dato che nelle rotazioni lo precedevano Kevin Johnson, Sam Cassell e poi anche Jason Kidd. Steve però utilizzò gli allenamenti per “battersi” con atleti in quel momento migliori e più esperti di lui, oltre che per rubare alcune skills agli stessi: il suo minutaggio si alzò dal primo al secondo anno (dai 10.5 minuti di media ai 21.9 in RS) così come i punti realizzati (da 3.3 a 9.1). In entrambi i casi, i Suns caddero al primo turno di playoff, prima sconfitti dai Supersonics e poi dagli Spurs.

E quando Mark Cuban, all’epoca proprietario dei Mavericks, non pareggiò l’offerta dei Suns nell’estate del 2004, Nash rientrò alla base da free agent. In panchina, a Phoenix, sedette Mike D’Antoni, il quale creò il “7 seconds or less”, un modo di pensare la pallacanestro secondo cui era necessario tentare il tiro entro i primi sette secondi dell’azione – questo permetteva di alzare il numero dei possessi e di alzare anche il punteggio. Chiaramente, D’Antoni si servì dei giocatori giusti per questo suo sistema offensivo, diventando una sorta di pioniere del futuro “run and gun”, oltre che degli “small-ball”: a Nash affidò le chiavi dell’attacco e lui non ebbe problemi a leggere la fase offensiva, aiutato dal funambolico Leandro Barbosa e dal duo Marion-Stoudemire, i quali riuscirono ad aprire il campo nel miglior modo.

Il giornalista Jack McCallum rimase a contatto con quella squadra per tutta la stagione 2005-06 e scrisse un libro intitolato per l’appunto “Seven seconds or less”, in cui racconta anche i dietro le quinte di quel gruppo capitanato da Nash. Nello scritto c’è un piccolo paragrafo che riassume al meglio ciò che è accadde con l’arrivo del canadese. “Senza Nash, i Suns avevano segnato 94,2 punti di media nella stagione 2003-2004; con Nash al timone dell’attacco ideato da D’Antoni, ne hanno segnati 110,4, primi della lega. Nel 2003-2004 i Suns avevano vinto ventinove partite; con Nash al comando dell’attacco di D’Antoni ne hanno vinte sessantadue. Si è trattato di una delle svolte più clamorose nella storia dell’Nba”.

Dal 2004 al 2012, ovvero nella seconda avventura di Steve a Phoenix, i Suns raggiunsero le Western Conference Finals in ben tre occasioni: la prima nel 2005, sconfitti dagli Spurs; la seconda nel 2006, battuti proprio dai Mavericks, mentre la terza nel 2010, quando a trionfare furono i Lakers. A proposito della stagione 2005-06, i Suns sfidarono al primo turno i Lakers e, dopo essere stati sotto 3-1, rimontarono e vinsero la serie per 4-3. Nel 2010 invece, sarà lo stesso Kobe Bryant a scrivere la parola fine sulla serie con un jumper in faccia a Grant Hill, segnato di fronte alla panchina di Phoenix (con annessa pacca a coach Alvin Gentry) e in un’arena che si ammutolì (4-2 per i gialloviola).

L’intermezzo a Dallas

Le caratteristiche di grande assistman e realizzatore, oltre che di playmaker dalla grande visione non passarono inosservate dopo le prime due stagioni che Nash disputò a Phoenix. Don Nelson lo portò infatti a Dallas, credendo che, in coppia con Dirk Nowitzki, Steve avrebbe potuto dispensare ancora di più pallacanestro, avendo anche più spazio a disposizione. Iniziò un’ulteriore crescita del canadese, che entrò stabilmente nel quintetto titolare e aumentò notevolmente le sue medie stagionali – la miglior annata con i Mavs fu quella del 2001-02 a quota 17.9 punti e 7.7 assist di media.

Niente playoff nelle prime due stagioni, poi la franchigia di Mark Cuban compì il salto di qualità, raggiungendo la post-season nelle successive quattro annate, rafforzata anche dagli arrivi di Juwan Howard, Antoine Walker e Antawn Jamison. Il massimo risultato, con Nash in campo, venne raggiunto nel 2003, quando i Mavericks di Don Nelson agguantarono le Western Conference Finals, sconfitti per 4-2 nella serie dai San Antonio Spurs: un derby texano che passò alla storia per i duelli tra Nowitzki e Duncan, e tra Nash e Parker.

Per altro, proprio nel 2000 Steve partecipò ai Giochi Olimpici a Sidney con la casacca del suo Canada: in coppia con Rowan Barrett – padre dell’attuale giocatore Nba, RJ – permise alla sua nazionale di raggiungere i quarti di finale, sconfitta poi dalla Francia (68-63). Proprio per questo, Nash è il padrino di RJ, avendolo conosciuto quando era ancora molto piccolo.

La chiusa ai Lakers

Da Phoenix a Los Angeles, Steve si trasferì nella città degli angeli nell’estate del 2012. Firmò una sign and trade in cambio di una serie di scelte, iniziando così un’avventura che, visto il roster, sarebbe potuta essere storica – almeno così si diceva. La squadra era composta da campionissimi: oltre al canadese, coach Mike Brown aveva a disposizione Kobe Bryant, Paul Gasol, Dwight Howard e Metta World Peace.

La prima annata risultò travagliata e Nash giocò solo 50 delle 82 partite disponibili per un infortunio, allenato dall’undicesima gara di RS in poi da Mike D’Antoni, il quale succedette all’esonerato Brown. I Lakers chiusero con un record di 45-37 e si scontrarono con gli Spurs al primo turno di playoff, ma senza Bryant, infortunatosi al tendine d’Achille: fu un massacro, con San Antonio che ebbe vita facile (4-0). Nash affrontò altri problemi fisici e nel 2015, all’età di 41 anni, decise di dire addio alla pallacanestro giocata.

I suoi assist

Come detto, Nash è stato uno dei migliori assistman della storia dell’Nba, lui che ne ha messi a referto 10.335 in regular season e 1061 ai playoff. La sua passione per il calcio, inoltre, gli ha permesso di passare alla storia anche durante una gara delle schiacciate all’All-Star Game 2005: in competizione c’era il suo compagno di squadra ai Suns, Amar’e Stoudemire, e Nash gli alzò un paio di passaggi (uno con i piedi e uno di testa) che fecero impazzire i tifosi presenti all’arena.

Il canadese era un maestro. Poteva far passare la palla sotto le gambe del difensore; poteva lasciare la sfera un secondo in aria per il compagno a rimorchio; o poteva anche compiere un no-look disorientando la difesa. Il compagno di squadra prediletto a ricevere gli assist era proprio Stoudemire: da ricordare in particolare il passaggio durante gara 6 della serie contro i Blazers (2010) a circa due minuti dal termine della sfida, quando Nash entrò in area e fece passare la palla dietro la schiena dell’avversario Aldridge, servendo Amar’e per una schiacciata facile. Un illusionista che rientrò nella cerchia di cestistici capaci di agguantare il famoso club dei 50-40-90, ovvero sia 50% dal campo, 40% da tre e 90% ai tiri liberi.