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Se c’è un’incubatrice di storie, di umanissime storie che solo poi s’intrecciano al tema sportivo, ecco che le Olimpiadi offrono il fianco, lanciano un segnale, mettono sul davanzale un megafono enorme dal quale poter urlare e liberarsi di qualsiasi peso. Nessuno si è mai sorpreso di manifestazioni, propagande, giochi politici durante quegli altri tipi di Giochi, con la G maiuscola e le medaglie. In questi giorni si tengono a Tokyo in un clima surreale: stavolta non c’entra destra o sinistra, ma la paura di faticare ad andare avanti, di contare i contagi e non il medagliere. Solo il futuro dirà di questo presente: in ogni caso, l’allerta ha raggiunto i livelli dell’attenzione. Si è fatta massima.

Qualcuno avrebbe pure provato a boicottare le Olimpiadi giapponesi, l’assist di una pandemia è di quelli che ti piazzano a porta vuota. Anche se pare faccia parte della tradizione, non ci sono riusciti. Neanche dopo il posticipo di un anno, che covava la speranza di potersi ritrovare tutti abbracciati, uniti, stretti sugli spalti a esultare per una nuova normalità. Sponsor e diritti televisivi hanno infatti imposto il via nel vuoto totale di stadi ultramoderni eppure privi del calore umano. Ci mancherà. E sarà diverso. Non mancheranno sicuramente le storie, quelle proprio non possono: sono protagoniste indiscusse insieme alle polemiche. Del resto, ricordate poco più in là, a Pechino? Sono passati 13 anni, ma le immagini di protesta del popolo tibetano sono ancora vivissime, insieme a chi sfruttò quella cassa di risonanza per strillare più forte.

Mosca 1980

Quanto accadde a Montreal, nel 1976, fu solo l’antipasto di un problema ben più radicato. Di una necessità di combattere su ogni fronte per i diritti umani – e non solo – e la comprensione, che oggi può sembrare banale ma che in un mondo affatto connesso non lo era, di quanto le Olimpiadi potessero raccontare alla storia oltre al vincitore, vinto, esperienze e percorsi. In quegli anni era anche in vigore il boicottaggio degli stati africani: partì proprio dall’edizione in Canada e sfociò in un ventennio di tensione. Durò fino alla riammissione del Sudafrica nel Comitato Olimpico, nel 1992. Di certo, ripensando a Mosca, episodi di un’enorme gravita. Però episodi. E non tentativi di ribaltamento geopolitico.

Ciò che accadde nell’Ottanta in Unione Sovietica fu l’estrema conseguenza di tanti fattori. A perdere fu certamente lo sport e subito dopo gli sportivi che coltivavano il sogno olimpico. Tutto iniziò nel dicembre del 1979, quando l’Urss inviò le proprie truppe in Afghanistan per sostenere il governo filo-sovietico che si era appena instaurato attraverso un colpo di Stato. L’invasione sovietica aveva fini precisi: occorreva fermare l’espansione dell’Iran prima che fosse troppo tardi. Jimmy Carter, presidente degli Stati Uniti che in quello stesso autunno correva per la riconferma, fu il primo a proporre il boicottaggio delle Olimpiadi di Mosca, arrivando poco dopo a un ultimatum: l’Urss avrebbe dovuto ritirare le truppe dall’Afghanistan entro giugno, pena la mancata iscrizione del team USA alla competizione di Mosca. Un danno non da poco: oggi come allora, gli statunitensi erano la squadra da battere, praticamente in tutto.

L’Unione Sovietica non indietreggiò di un centimetro, né lo fecero gli States di Carter. Che ottenne una risposta di amicizia da oltre 60 nazioni, a loro volta impegnatesi nel boicottaggio olimpico. A Mosca furono in tanti a non andare, compresa la Cina, appena riammessa dal CIO. Italia, Francia, Belgio e Gran Bretagna parteciparono ai Giochi senza bandiere e inno nazionale, presentandosi sotto le insegne del CIO. Una particolarità. Tanti atleti facevano parte di gruppi militari e a causa dell’Alleanza Atlantica, non poterono partecipare.

Los Angeles 1984

Oh, per la cronaca – e pure per i libri di storia – Carter non fu nemmeno confermato. Al suo posto, il Presidente Reagan, che si trovò tra le mani i Giochi del 1984, quattro anni dopo la decisione su Mosca. L’Unione Sovietica aspettava da tempo di poter rispondere: le Olimpiadi di Los Angeles erano diventate luogo, tempo, occasione giusta per dare un segnale. In risposta all’azione di Carter, imposero ai propri atleti l’assenza dagli Stati Uniti. Sei nazioni aderirono immediatamente (l’annuncio arrivò l’8 maggio 1984), la Cina invece confermò la sua presenza. L’Afghanistan – centro nevralgico di tanti temi – confermò il boicottaggio solo dopo, così come Ungheria e Polonia, stati filosovietici. Anche Cuba aderì e lo fece venti giorni più tardi, poco prima di Yemen, Corea del Nord e Angola.

La quattordicesima, e ultima nazione, a non preparare il passaporto fu l’Iran. Dall’ayatollah, la condanna ferma per una “eccessiva interferenza degli Stati Uniti nel Medio Oriente e come suo sostegno per il regime che occupava Gerusalemme e dei crimini commessi dagli Stati Uniti in America Latina”. A cosa si riferivano? Ai fatti de El Salvador, tornati in auge in quelle settimane. Gli USA, seppur non sorpresi, si dichiararono ugualmente stupiti. La fiamma continuò ad ardere per tutta la durata della competizione, e furono le Olimpiadi di Carl Lewis, Sara Simeoni e di Nawal El Moutawakel, prima donna di un paese arabo a salire sul gradino più alto del podio.

Ecco cosa sono le Olimpiadi: ricuciono pure ciò che si spezza. Potevano essere storie monche, quelle di Russia e di LA, e invece sono state riempite da episodi e record, dai personaggi e le loro storie. Buona pubblicità per Tokyo: mancherà la passione, mica tutto il resto.