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Lo sport, soprattutto quello professionistico, mette spesso in secondo piano quelle metafore di vita rispetto alle quali ognuno di noi inizia a praticare una disciplina.

L’indimenticabile episodio di Derek Redmond alle Olimpiadi del 1992, le accomuna tutte insieme e reindirizza nei giusti binari il vero significato di un’attività sportiva.

Sacrificio, orgoglio, competitività 

Il vero spartiacque che si forma tra chi si ferma ad una mera passione e chi invece fa dello sport una ragione di vita e possibilmente una fonte di guadagno, sta nell’accezione che si vuole dare alle tre parole che danno il titolo a questo paragrafo. 

Il sacrificio diventa fondamentale nel momento in cui si incontra la consapevolezza che a una buona parte delle leggerezze della parte iniziale della propria vita, occorrerà rinunciare. 

L’orgoglio è legato al sacrificio, perché entra in gioco l’amor proprio e la necessità di raggiungere degli obiettivi ad ogni costo, senza scendere a compromessi attraverso strade facili e poco tortuose. 

La competitività è invece qualcosa che non si impara, che nasce dentro ognuno di noi e che va semplicemente foraggiata e nutrita, attraverso il confronto con chi ha lo stesso obiettivo, quello di superare sé stessi e i propri avversari. 

I 400 Metri a Barcellona 

Se volete un sunto di pochi secondi di quanto avete appena letto sul vostro device, basterà fare una piccola ricerca sul web, utilizzando come parole chiave Derek-Redmond-Barcellona

Torniamo infatti indietro di poco meno di trent’anni, per rivisitare uno dei momenti più toccanti e iconici dello sport moderno, le Olimpiadi catalane del 1992.

Derek Redmond è pronto ai blocchi di partenza della sua gara, i 400 Metri piani, è tra i favoriti, ha buone chance per fare molto bene ed è nel pieno della sua esplosione fisica e tecnica. 

Sono momenti bellissimi, anche se la strada è ancora abbastanza lunga, visto che la gara di cui stiamo parlando, è la semifinale.

Derek, come rilasciato in più di una intervista successivamente, pensa in quei momenti a tutta la sua vita, alla sua Buckinghamshire, la contea inglese che gli ha dato i natali 27 anni prima. 

Pensa ai sacrifici, all’orgoglio e alla competitività che lo hanno portato fino a lì, alle soglie della gloria, dopo aver conquistato due ori agli europei di Stoccarda del 1986 e ai mondiali di Tokyo nel 1991, più un argento ai mondiali di Roma del 1987, tutti con la squadra inglese della 4×400, che si permise di scippare lo scettro di staffetta più veloce del mondo agli Stati Uniti. 

Bang!

Arriva lo sparo dello starter che segue di qualche secondo quello di avviso per posizionarsi sui blocchi e l’adrenalina di stadio e atleti è al culmine. 

Derek Redmond è in corsia 5, una delle migliori, ha buona visione dei rivali a sinistra e a destra e il passaggio in finale dovrebbe essere poco più di una formalità.

Dopo poco meno di mezzo giro di pista, quando il cronometro segna circa i 16 secondi dallo start, Redmond sente una fitta lancinante, una pugnalata al bicipite femorale della sua gamba destra. 

Non ci sono dubbi, né per lui e nemmeno per chi lo sta osservando dagli spalti o dalla tv, è facile capire che si tratta di uno degli infortuni più comuni e temuti per i velocisti di atletica leggera, uno strappo. 

Redmond si trascina immediatamente la gamba destra, dopo pochi metri si ferma e, lancinato dal dolore, comincia a piangere come se le speranze di una medaglia olimpica, si allontanassero di colpo.

Esattamente come di colpo si allontanano tutti i suoi avversari che dovranno correre come matti per altri 250 metri. 

Resa mai

Lo sport ci ha insegnato, e continua ad insegnarci, un numero pressoché infinito di lezioni che vanno oltre la mera competizione tra atleti e questo episodio ne è la summa perfetta. 

Dopo essersi inginocchiato per pochi secondi, Redmond riprende claudicante la sua corsia numero 5 con l’intenzione di percorrerla fino al traguardo, anche se sembra farlo in condizioni disperate che potrebbero peggiorare ulteriormente lo stato di salute del muscolo. 

Le immagini sono drammatiche e riprendono il campione inglese saltellare ponendo tutto il peso del suo corpo sulla gamba sinistra, in evidente difficoltà. 

Le stesse immagini riprendono una scena che all’inizio desta qualche preoccupazione, ma che poi verrà capita da tutti di lì a qualche secondo. 

Un uomo riesce ad eludere prima gli steward presenti sugli spalti e poi l’ultimo baluardo della sicurezza posto proprio all’interno dell’ovale dove si svolgono le gare e affianca Derek. 

Abbraccia Redmond, lo tiene per il braccio e lo accompagna fino al traguardo. 

Il quattrocentista britannico glielo permette, anche perché quelle mani e quelle braccia lo hanno tenuto migliaia di altre volte nella sua vita. 

Il padre di Derek, Jim, spiegò poi che ritenne la cosa istintiva e che nessuno avrebbe mai potuto fermare la sua corsa per raggiungere il figlio. 

La cosa più incredibile di tutto quello che successe, è che papà Jim, era corso giù dagli spalti per dissuadere il figlio dal completare il famoso “giro della morte”, non certo per accompagnarlo al traguardo. 

La sua paura era quella che quell’ulteriore sforzo potesse rovinare la carriera di Derek e cambiò idea solo quando il figlio, in pista, gli disse che per lui era una questione di vita o di morte. 

Allora finiremo il lavoro insieme”, gli disse Jim. 

Gli anni seguenti

Tutti i medici che visitarono Derek dopo quella gara, furono d’accordo nel fornire la stessa e identica diagnosi: Redmond non potrà più correre a certi livelli, troppo profondo lo strappo muscolare. 

Ma uno che compie un gesto così estremo, non può arrendersi, o almeno non può farlo del tutto. 

Appena terminata la sua riabilitazione, il campione inglese, già appassionato di basket prima di diventare un velocista, decise di ricominciare daccapo e la sua determinazione lo portò ancora una volta a rappresentare la propria nazione e giocando alcune partite con la nazionale inglese di pallacanestro.

Sacrificio, orgoglio, competitività.