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Una pioggia di petroldollari si è riversata sul mondo dei videogiochi. Circa 2,5 miliardi con i quali il Fondo per l’investimento pubblico dell’Arabia Saudita ha aumentato la propria presenza in questo settore.

1,06 miliardi di dollari sono serviti per acquistare 7.4 milioni di azioni di Electronic Arts (publisher specializzato nei titoli sportivi, come ad esempio FIFA), mentre 1,4 miliardi sono finiti nelle casse di Activision Blizzard (il publisher di Call of Duty) in cambio di 14 milioni di azioni. Infine, il Fondo saudita ha aumentato i propri investimenti all’interno di Take-Two Interactive, la software house sviluppatrice di titoli molto venduti in tutto il mondo (Grand Theft Auto) e della quale possedeva già un discreto pacchetto azionario. L’analista Matthew Kanterman ha calcolato che con questi investimenti il fondo gestito dal principe Mohammed bin Salman possiede ora il 2% delle azioni di Activision Blizzard, il 2.6% delle azioni di EA e il 3.5% delle azioni di Take-Two. (fonte multiplayer.it)

Non c’è dubbio che l’investimento di uno dei fondi più ricchi al mondo (vale 400 miliardi di dollari attualmente) nei videogiochi sia un indicatore esplicito della salute di quest’industria: nel corso dell’ultimo anno, proprio a causa del coronavirus, il fatturato dei videogame ha registrato un incremento record, vicino ai 180 miliardi di dollari. Lo stesso principe ereditario al trono saudita ha affermato di voler cambiare l’immagine del Paese, diversificandone la vita economica (il noto progetto Vision 2030): non più solo petrolio, ma anche intrattenimento e mondo virtuale.

D’altra parte non possiamo evitare di dire che la figura del principe Mohammed bin Salman – omaggiato di recente da una visita di Matteo Renzi – è tra le più controverse del mondo arabo (e non solo). Un principe a dir poco “machiavellico”, fautore di politiche repressive nei confronti della libera espressione di parola, dei diritti civili e di aggressioni militari (guerra nello Yemen), Mohammed bin Salman è ritenuto il principale responsabile del brutale assassinio del giornalista Khashoggi. Purtroppo, il vecchio proverbio latino pecunia non olet si applica ad ogni settore economico, compreso quello dei videogiochi.

E’ passato qualche tempo dall’ultima notizia legata alla contesa legale tra Epic Games e Apple. Nella precedente occasione, il publisher di Fortnite si era preso una rivincita morale grazie al Samsung Galaxy Store che aveva dichiarato lo “sparatutto” gioco dell’anno 2020. Epic ha subito colto la palla al balzo per farsi beffe di Apple attraverso una serie di gadget in stile “mela” inviati agli influencer di Fortnite.

Ad essere sinceri, si è trattato di una mossa di pura facciata, perché le azioni legali finora intentate per ottenere una riammissione forzata del gioco sull’Apple store si sono scontrate con il rifiuto dei vari giudici negli Stati Uniti. Anche una sorta di chiamata alle armi contro l’azienda di Cupertino ha riscosso pochissimo successo, visto che l’ipotizzata coalizione ha raccolto solo un modesto supporto da parte di Spotify.

Il prossimo round legale tra i due colossi è in programma negli States il 21 aprile prossimo, con un confronto preliminare che precede il bench trial (cioè senza giuria) del 3 maggio. Nel frattempo, Epic ha scelto di spostare la contesa in un’altra giurisdizione, quella dell’Unione Europea. Il publisher ha sottoposto il caso alla Commissione Europea sporgendo denuncia al Direttorato Generale della Concorrenza. La sostanza dell’azione, ribadita in un comunicato firmato dal CEO e fondatore di Epic Tim Sweeney, è un’accusa di monopolio nei confronti di Apple.

Ancora una volta il publisher si propone nel ruolo di paladino del libero mercato e della libera concorrenza, il che potrebbe anche suonare bene nell’aula dell’antitrust europea, da sempre sensibile quando si tratta di limitare le aziende in odore di “posizione dominante”. Apple è però una multinazionale statunitense, mentre Epic Games è al 49% di proprietà del colosso cinese Tencent. In tempi di ridefinizione degli equilibri internazionali “post-Trump”, sarebbe ingenuo trascurare il peso di questo elemento politico sulla valutazione della Commissione Europea.

A pensar male si fa peccato, ma a volte ci si azzecca.

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