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In quell’opera magistrale che è L’elogio del culo, Tinto Brass arriva a dire che “il culo è lo specchio dell’anima”. Il culo, infatti, “non mente”, non dissimula. Il volto può farlo e di fatto lo fa continuamente.

Per capire Walter Sabatini, dovremmo forse studiarne il culo. Non però in senso metaforico, perché quello Sabatini non ce lo ha mai avuto. Guai a parlare della salvezza della Salernitana come di un evento fortunoso, o della semifinale di Champions della Roma ottenuta nel 2018 come di pura casualità.

In entrambi i casi, ma potremmo citarne molti altri dalla carriera di Sabatini, quello che rimane alla fine è un sentimento di incompiutezza. Qualcosa di più poteva essere – ma non è stato – fatto. Il fatto: parola monca, cattiva, malefica, per uno come Sabatini che vive di possibilità.

Le fondamenta di Sabatini

Andandosene dalla Roma nel 2016, inconsapevolmente si prende la scena nella conferenza stampa d’addio al club giallorosso – quello per il quale, insieme al figlio Santiago, fa ancora oggi il tifo.

In quella circostanza, Sabatini si concentra su un aspetto fondamentale del suo lavoro – che poi, come spesso gli capita, va di pari passo con la vita di tutti i giorni: l’umanità.

Le fratture con la presidenza Pallotta non sono dovute a ragioni contrattuali, né di campo, bensì filosofiche: la mania tutta americana (e anglofona) di misurare il talento attraverso statistiche, numeri, studi al dettaglio sulle prestazioni negli allenamenti, cozzano con la metodologia di Walter Sabatini. Uno che ha bisogno di portarsi a cena i giocatori per convincerli del progetto. E per convincere lui a fidarsi di loro.

«Per me il pallone è una sfera magica, l’Aleph di Borges, ci vedo l’universo intero, mentre altri notano solo la sfera di plastica». Quello di Sabatini è il calcio di Dimitrijevic, di Pasolini, di Albert Camus – il quale con emozione ricordava, dopo aver preso il Nobel per la Letteratura, come “lo stadio [rimanesse] il luogo di educazione per eccellenza, quello dove [sono più felice] insieme al teatro”.

Forse non a caso, vedendo e intravedendo in Sabatini le fattezze del profeta maledetto, Paolo Sollier – perugino maledetto dal destino, uno che salutava il pubblico col pugno chiuso negli anni più caldi del terrorismo italiano – strinse con Sabatini un’amicizia profonda (quando Walter era un calciatore in rampa di lancio in terra umbra).

Sollier gli regalò Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez (1967): “Si tratta di un libro che insegna a far da soli cose utili anche agli altri”. Come portare nel cuore, fattosi nel frattempo di pietra, il ricordo ancora vivo e fumante di un amico perduto: Renato Curi.

Di lui Sabatini conserva una foto, l’unica che troverete nel suo portafogli. Fu scattata in aereo ai tempi del Perugia: vi si vedono sorridenti e insieme seri Sabatini e Curi, a cui oggi è intitolato lo stadio del Grifone perugino. “La conservo perché sembra che quella luce bianca lo inghiotta, e infatti così accadde”.

È una spiegazione come al solito di Sabatini, eccessivamente filosofica. Quasi artificiosa. Come se l’esposizione dei sentimenti, inesponibili per definizione, portasse con sé quella scorza dura degli uomini che tanto hanno sofferto: la cultura nel suo senso più profondo.

Come i maestri della comicità, che sanno come far ridere perché sanno cosa vuol dire piangere. “Mi suicido tutti i giorni, ho sempre avuto poco rispetto per la vita. Sono un suicida senza successo”, afferma Sabatini immaginandosi ancora quell’ultima sigaretta accesa prima di scomparire alla terra e a sé stesso per qualche ora a causa di un infarto: “ho visto il Paradiso: era un supermercato”.

Lo stesso che Sabatini vive e stritola da più di trent’anni, gli ultimi nei quali “non [ha] fatto altro che vedere calcio e fumare sigarette”.

Dal campo alla scrivania

Come si chiama il supermercato del pallone? Calciomercato. E se Sabatini non ne è il Re assoluto, ci si avvicina parecchio per elezione popolare.

Conquista e assolutizza le piazze più calde d’Italia: Roma (prima alla Lazio, poi alla Roma), Palermo, Genova (Sampdoria), Milano (all’Inter), Bologna, Salerno. Ovunque vada, lascia il segno. E da buon profeta qual è, lo lascia nei tempi a venire. Perché solo il grano che muore “lascia molto frutto” (vangelo di Giovanni).

La Roma che arriva ad un passo dalla finale di Champions nel 2018 è una sua creatura, anche se lui non c’è più ormai da due stagioni.

Il Palermo che sfiora la Champions è tutto suo, come la Lazio che nonostante la penalizzazione di 11 punti per Calciopoli raggiunge un clamoroso piazzamento in Champions, il primo dell’era Lotito. Un presidente mica da ridere, proprio come Zamparini. Piazze mica da poco, come quella di Salerno dove compie l’ultimo miracolo: salvare una squadra data spacciata dai bookmakers, a 2 minuti dal fallimento (Iervolino compra la Salernitana alle 23:58 del 31 dicembre 2021), con dieci nuovi acquisti sapientemente calibrati tra esperienza (Fazio), riscatto (Verdi), talento puro (Ederson).

D’altra parte, anche se su questo punto è assai modesto, Sabatini da calciatore era un talento purissimo. Anche troppo; si perse perché non aveva la testa.

Alla Roma, dove va nel 1976 in qualità di riserva di Bruno Conti, “c’erano i presupposti per costruire una storia molto bella, ma non è stato così perché ero veramente molto limitato. Cerebralmente limitato. Tecnicamente formidabile”.

Va allora al Palermo, poi al Vicenza. “Ero totalmente inadeguato a giocare al calcio, senza averlo capito. Ero un ottimo calciatore che non capiva il calcio, quindi ero un brocco”.

Forse però Sabatini, di non essere destinato alla carriera da calciatore, lo capì anche troppo bene: come spiegare altrimenti il ritiro al limite dei trent’anni?

Sabatini lavora col Perugia fin da subito: dirigente del settore giovanile, allenatore in seconda, poi direttore sportivo (ma all’Arezzo, dove finisce in un brutto guaio giudiziario nel 1998 per via di alcuni illeciti mai commessi, ma che gli bloccheranno la carriera sul nascere, fino al 2003, cioè alla chiamata di Lotito).

Alla Lazio acquista per due lire Behrami, Mudingayi, Stendardo, Tare. A gennaio, in prestito, scova Handanovic e Stefano Mauri (che poi rinnoverà, scrivendo la storia con la maglia della Lazio; il 26 maggio del 2013 quando, ironia della sorte, Sabatini era da due anni ds della Roma).

Porta la Lazio ad avere talenti del calibro di Kolarov, Lichtsteiner, Mauro Zarate. La Lazio vince una Coppa Italia, e Sabatini se ne è già andato: è il suo destino, costruire senza godere del lavoro fatto.

Il Palermo, dopo l’esperienza romana, “è [stata] la mia utopia, solo parzialmente realizzata”. L’utopia era portare il Palermo in Champions, grazie a giocatori del calibro di Cavani, Miccoli, Barzagli, Simplicio, Balzaretti: tutti giocatori ereditati dalla precedente gestione, alla quale aggiunge Kjaer, Hernandez, Pastore e l’allenatore: Delio Rossi.

Quell’anno il Palermo finisce quinto a due punti dalla Samp, che a maggio aveva battuto la (sua) Roma negandogli il sogno Champions e ai giallorossi uno scudetto storico. I festeggiamenti, per Sabatini, sono ancora una volta rimandati.

La parentesi alla Roma

A maggior ragione quando con grande entusiasmo, ma anche con un nichilismo strisciante ed inevitabile per un destinale come lui, si presenta a Roma con parole insieme confuse e molto precise: «Buongiorno. La dimensione dentro la quale son precipitato, capitato… adesso la percepisco con chiarezza. Ma lo sapevo già, me l’immaginavo. Posso chiedervi una deroga straordinaria? Io mi devo fumare due, tre sigarette. Sennò perdo la concentrazione, e non sarò efficace nelle risposte. Ditemi di sì. Fragorosamente! Perché a me m’incoraggia, ‘sta cosa qui».

Sabatini non è «contro la scienza, la modernità. Ammiro la logica, ma se a dettare le scelte del mio lavoro è un programma, un software che tratta gli uomini come numeri e come pezzi di ricambio, io non ci sto. Se devo comprare qualcuno e sbilanciarmi, devono poter contare anche il mio occhio e la mia riflessione. Uno sciamano sa, per altre vie».

Per quelle vie costruisce forse la miglior Roma di sempre dopo le due scudettate nell’84 e nel 2001: Alisson fa il secondo a Szczesny, in difesa ci sono Rudiger, Vermaelen, Manolas. In attacco Salah, accanto a Dzeko. E poi Paredes, Nainggolan, poco prima Marquinhos, Pjanic, Lamela, per la cui cessione – dirà – pianse a dirotto: «Lamela passa in mezzo agli avversari come un puledro che scuote la testa in cerca di libertà».

Un po’ come lui, Walter Sabatini, uno che ha “sempre quest’ansia di [andarsene]. E non [può] avere amici”. “Non sopporto le conseguenze dell’amicizia”. Come potrebbe, uno che dice di avere “il cervello di sinistra e il corpo di destra, sempre in conflitto”.

Solo su una cosa Sabatini è deciso, risoluto, impenetrabile: «Mi sono reso conto di una cosa che scandalizzerà i più, e che avrebbe scandalizzato anche me, appena dieci anni fa. Che la povertà non è il peggiore dei mali, e nemmeno lo sfruttamento. Cioè, il gran male dell’uomo non consiste né nella povertà né nello sfruttamento, ma nella perdita della singolarità umana sotto l’impero del consumismo».

Quella che lui non ha mai perso. Non potrebbe farne a meno, tutto il resto è noia.