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Di Maldini. Della dinastia Maldini. Del figlio, del padre, del giocatore, del capitano, del dirigente. Di un esempio unico nel suo genere, con l’umiltà di non sentirsi inarrivabile. Semplicemente, come si fa a razionalizzare un fenomeno così grande?

Un aiuto può arrivare dalla scansione temporale del fenomeno. Di quando, quindi, quel 26 giugno del 1968, nel pieno di un’Italia e di una Milano in preda ai tumulti e alle proteste, Paolo veniva al mondo. Non in una famiglia qualsiasi: ma dall’unione di Marialuisa Mazzucchelli e Cesare Maldini, ex difensore e bandiera del Milan.

C’è una frase de l’Equipe che spiega esattamente chi è diventato Paolo Maldini in tutti gli anni di militanza nel calcio: “23 anni di carriera – si legge – e non si è mai allontanato da un senso di morale, dovere, fedeltà, etica. Ciò ne ha fatto un’icona del calcio”. Ancora oggi, oggi che il Milan sembra in ripresa, la sua firma in calce non poteva mancare. Maldini ha ridato senso e dignità allo stemma sul suo cuore, in campo e nella vita.

Il suo primo Milan

Dal 1978 al 2009. Trentun anni di Milan, non solo seguendo un esempio massimo come papà Cesare, ma anche riuscendo a scrivere una nuova storia. Da figlio a Paolo, semplicemente Paolo, e il Maldini della dinastia. Daniel, ora in rossonero, sa bene che per superare quanto prodotto da papà non servirebbero due carriere.

Intanto, il debutto è già andato: Maldini diventa grande il 20 gennaio del 1985, all’età di 16 anni. A notarlo è Liedholm: c’è la trasferta di Udine e manca Tassotti.

Con la numero 14, Paolo viene piazzato in panchina. Non ha alcuna aspettativa: sa di dover fare numero, non si aspetta nulla di diverso. E invece è il destino a fornire un assist chiaro, deciso, fondamentale: si fa male Sergio Battistini, nella ripresa tocca a lui.

Liedholm lo piazza terzino destro, Maldini risponde con ottima personalità. Dalla stagione successiva, viene schierato come terzino mancino, il ruolo della sua vita. Il 4 gennaio del 1987, praticamente due anni dopo, arrivò pure il primo gol. Ecco: un anno chiave, decisivo per lui e per tutto il Milan.

Sta per arrivare Sacchi e quindi la rivoluzione. Maldini, fino a quel momento una giovane promessa, è pronto al salto a giocatore chiave. Silvio Berlusconi, nuovo presidente, ha così tanta attenzione per quel ragazzo che non avrà dubbi: si riparte da lui.

Arrigo e Carletto, in mezzo don Fabio

Arrigo Sacchi gli rivoluziona la vita, dà già un senso profondissimo alla sua carriera. Paolo è il titolare inamovibile di una difesa che si muove come telecomandata.

Un concentrato di talento in quattro uomini che nella storia è arrivato poche volte tra i comuni mortali: da una parte Franco Baresi, dall’altra Billy Costacurta; c’è anche Filippo Galli e sugli esterno proprio Maldini e Mauro Tassotti. Le vittorie erano dolce conseguenze di lavoro e qualità. E iniziarono già nel 1988, con la prima edizione della Supercoppa Italiana. Poi la Coppa dei Campioni, la Supercoppa Europea, la Coppa Intercontinentale.

Tutto quello che c’era era tutto quello che il Milan vinceva. Fino al marzo del 1991: il Velodrome, le luci, le proteste e la squalifica per aver abbandonato il campo. Finì l’era degli Immortali, iniziò quella di don Fabio Capello.

Anche qui: un cambio drastico. Pure qui: tutto per il meglio. Perché Capello fu bravo anche nello snaturare una squadra con una solidità mentale inarrivabile. Maldini continuò a macinare chilometri sulla fascia rossonera.

E ovviamente continuò a vincere, soprattutto quella Champions del 1994, contro il Barcellona ad Atene: i blaugrana erano certi di portare a casa la coppa, Maldini fu schierato da centrale in virtù delle assenze di Baresi e Costacurta. Fu perfetto. Sontuoso. Meraviglioso. E finì 4-0, portando a casa Coppa Campioni e titolo di “giocatore dell’anno” per World Soccer, terzo nella graduatoria del Pallone d’oro nello stesso anno.

Nel 1997, dopo dieci anni di Milan e di vittorie, Franco Baresi gli offre la fascia di capitano, ricambio che in Nazionale era già avvenuto. Per Maldini è un orgoglio, e sarà ancor più vivo nel 1999, quando disputa una delle sue migliori stagioni da milanista: è la squadra di Zac, di uno scudetto quasi inaspettato. Il suo primo da capitano, mentre davanti a sé si spalancava un nuovo millennio e ancora tante vittorie. Con un altro uomo cruciale nel suo destino: un vecchio amico come Carlo Ancelotti.

Sì, proprio Carletto, che prende Nesta dalla Lazio e lo piazza al centro insieme a Paolo: non ha più i compiti dell’esterno, con Ancelotti è un centrale dal massimo affidamento.

E dalla carriera lunghissima: dal 2001 al 2009, altri otto anni di livello superiore. Nel 2003, sublima tutta la sua esperienza di bandiera, uomo immagine, testimonial puro del milanismo: a Manchester si gioca la finale più importante di tutte, quella di Champions League contro la Juventus.

È trionfo, ai rigori. È soprattutto la sua vittoria: diventa campione dEuropa da capitano, esattamente come papà Cesare quarant’anni prima. Quaranta esatti.

Il tonfo di Istanbul, la risalita di Atene. Cinque Coppe dei Campioni nella storia: è l’unico calciatore, insieme a Gento, ad aver disputato 8 finali della massima competizione mondiale.

Intanto fa 600 partite in Serie A e chiude i conti anche con l’Intercontinentale: il 16 dicembre del 2007, i rossoneri battono il Boca Juniors e Paolo porta a casa il titolo numero 26 della sua carriera, il tredicesimo tra quelli internazionali.

Fa mille da professionista e tutti iniziano a chiederselo: quando lascia? Perché non l’ha già fatto? Semplice: in quel Milan era ancora determinante, e poi si sentiva bene. In forma. Nel 2009, i primi segni di cedimento e poi la decisione: saluterà a fine anno. E lo farà davanti a quasi 70mila spettatori, qualcuno in contestazione, tutto il resto in un tripudio d’applausi. Nessuno è stato come e quanto lui.

L’amaro addio e la nuova vita

L’amarezza di una manciata di fischi non ha mai portato Maldini ad avere un atteggiamento ostico nei confronti della dirigenza rossonera: semplicemente, anche se da capitano, Paolo è sempre stato restio a concedersi ai gruppi ultras.

Per dirne una: nessuno l’ha mai visto nelle riunioni che i gruppi organizzati svolgevano con parte della dirigenza o qualche elemento della rosa. Dopo aver lasciato il calcio, Paolo si è dedicato ad attività imprenditoriali, ha cambiato vita ed è stato tanto in famiglia. Ha seguito Christian, il primogenito, e l’ha visto crescere in rossonero. Con lui anche Daniel che dopo tutta la trafila ora è stabilmente nelle rotazioni di un Milan carico di speranze.

Del calcio sembrava interessargli poco, in realtà aspettava solo la chiamata di casa. Dopo la cessione della società di Berlusconi, i problemi di Li e l’ingresso di Elliot, il 5 agosto del 2018 viene annunciato il suo ingresso nell’organigramma milanista. Il suo ruolo è quello di sviluppare l’area sport, sostanzialmente affiancare il direttore sportivo e l’amministratore e pesare anche con scelte determinanti.

Leonardo è la sua garanzia, ma la chiamata del Psg lo lascia di fatto solo, a giostrare una situazione non semplice e tutte sulle sue spalle.

Quando sembra di nuovo vicino all’addio (con l’arrivo di Gazidis), Maldini accetta il ruolo di direttore tecnico e decide di lavorare fianco a fianco con Massara. Il Milan oggi è nelle sue mani. Lui è volto del Milan. Che grazie al suo lavoro, torna in Champions dopo 10 anni. Non un caso. Non può mai esserlo.