Vai al contenuto

Alzi la mano chi non la ricorda. E alzi la mano anche chi non l’ha studiata, in qualche modo ricordata, sicuramente ascoltata in mille racconti di calcio.

Milan-Real Madrid 5-0 non ha bisogno di ulteriori dettagli: non serve parlare di quando, di dove, di come capitò. Ma solo del fatto che, nella storia di Milan e Real, c’è una grande conquista e una grande macchia.

Ecco perché Arrigo Sacchi è ancora oggi ricordato e venerato a Madrid: non per il suo contributo da direttore dell’area tecnica e direttore sportivo (in una sola stagione), o per il lavoro di 4 anni da coordinatore delle giovanili. Semplicemente, perché è stato l’unico allenatore a mettere in imbarazzo europeo i blancos.

Dal 1980 al 1988, il Real aveva sempre vinto contro le squadre italiane: aveva battuto 4 volte l’Inter, una volta la Juventus, una volta pure il Napoli di Maradona.

In Coppa dei Campioni, insomma, era sempre andata avanti.

Poi arrivò il 1989, la semifinale di ritorno, l’1-1 dell’andata strappato con parecchi problemi – impressionante, la prestazione rossonera, con la reazione furiosa di Van Basten al gol di Hugo Sanchez -, l’inferno chiamato San Siro.

Il Milan va a doppia velocità, fa pressing e gioca a viso aperto. Quel match, come una finale. E i rossoneri, le finali, sono sempre stati abituati a vincerle.

Una partita diversa dalle altre

Quando i giocatori del Real Madrid sono scesi in campo, in quel 19 aprile 1989, lo stadio è scomparso in una nuvola di fumo rosso, creato dai fumogeni dei tifosi.

I madridisti non lo sapevano all’epoca, ma il teatro del vecchio San Siro era già lo scenario ideale per la rappresentazione di un inferno calcistico. Era una premonizione di quello che sarebbe successo durante la partita.

Il motivo? È stata una debacle crudele e caotica, sigillata con tanti gol quanti ne voleva il Milan. Così era finito, in un clamoroso e spettacolare fallimento, il terzo tentativo consecutivo del Real Madrid di raggiungere la finale della Coppa dei Campioni.

Leo Beenhakker lascerà il club senza aver vinto un solo titolo europeo e la generazione di Butragueno continua a invecchiare senza realizzare i suoi sogni. Michel aveva raccontato l’anno prima: “Non voglio vincere la Coppa Europa a 30 anni”. All’epoca ne aveva quasi 27 anni e il suo desiderio non si era ancora realizzato.

La strategia del Madrid era durata 18 minuti, si potrebbe dire. Il crollo, in Spagna, fu definito “tanto spettacolare quanto inaspettato”.

Ma perché così inatteso? Perché il Real aveva iniziato la partita con la massima attenzione, sollevando qualche dubbio nella mente del Milan sulla loro superiorità teorica, sulla carta.

Ma, a differenza del Bernabeu, i rossoneri hanno semplicemente convertito in gol le prime due occasioni, e il Madrid è crollato. Un crollo che in Spagna provano a spiegare con ragioni tattiche e tecniche, anche solo per giustificare l’assenza di reazione: del resto, mancava Tendillo, e in difesa furono surclassati.

Ma una sconfitta 5-0 come quella di San Siro poteva essere spiegata solo dalla psicologia della squadra. Anzi: delle squadre. Se il Madrid aveva raccontato di non essere in grado di gestire mentalmente la pressione da Champions League (che tempi, quei tempi), il Milan aveva semplicemente raccontato di essere il club più forte di tutti i tempi.

Il trionfo di Sacchi

Diciotto minuti e chi segna? Carlo Ancelotti, oggi e qualche anno fa allenatore dei blancos; sette minuti più tardi, al 25′, lo zampino di Rijkaard. Eppure, fino al 2-0, il Madrid aveva giocato un buon calcio.

Aveva anche generato un po’ di nervosismo nel Milan, forse sorpreso dall’approccio d’attacco, dove si affrontavano i tre dei blancos contro i tre dei rossoneri. Uomo a uomo, con risultati alternati. Ma mentre i campioni d’Italia avevano avuto le loro prime due occasioni per segnare in appena 25 minuti (realizzandole), il Madrid aveva prodotto solo un colpo di Michel (al minuto 35): rimarrà solo quella, l’unica di fatto in tutta la partita. Il 2-0 aveva già piegato il Real.

Tutte le debolezze caratteriali sono poi venute alla luce. Michel e Martín Vázquez erano scomparsi; Gordillo e Llorente non avevano fatto altro che correre inutilmente; Butragueño e Hugo Sanchez hanno vagato senza palloni da giocare.

E il Milan, nel frattempo, andava in giro con raziocinio e gioco. E camminavano in lungo e in largo per il campo, coprendo ogni buco e affondando con facilità estrema. Con Rijkaard in regia, avevano giocato un calcio quasi comodo, fluido, elegante, efficace, mentre il Madrid sembrava al tappeto, ancora incapace di capire dove si trovasse, dopo 180 minuti di gioco e un mese di studio. In particolare, il Milan fu atroce nella pressione: affondava e ripartiva, costruiva e recuperava in un istante. La differenza tra i due club è stata meravigliosamente brutale.

Quella di Sacchi venne definita una “tortura cinese“, la cui prima sessione si era già tenuta al Bernabeu, con il culmine arrivato proprio a San Siro. Il gol del 3-0, segnato da Gullit sull’orlo dell’intervallo, fu la ciliegina su una torta profondamente indigesta per il Real, ai limiti della perfezione per Sacchi (che pure era un profondo perfezionista).

Appena usciti dagli spogliatoi, con più buona volontà che ispirazione, il Madrid aveva visto disperatamente il conto chiuso, pure quello dei sogni: prima Van Basten e poi Donadoni, avevano siglato l’ultimo patto con la storia. Cinque gol, cinque, che hanno distrutto ogni possibile difesa di una squadra che fino al sabato precedente, non aveva perso una partita né in campionato né in Coppa dei Campioni.

Nei 30 minuti tra l’ultimo gol e il fischio finale, il Milan ha dato al Real molto tempo per riflettere sulla propria… sfortuna, mettiamola così.

Al contrario, nello stesso momento, un blocco compatto che sguazzava nella sua apoteosi, che si muoveva con una superiorità sfacciata. Per il Real sono stati 30 minuti bui e infernali, un triste epilogo di un’epoca che era finita.

Per il Milan, il valzer della vittoria più dolce, forse dai contorni più storici di tutti.