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Lo chiamavano il “nipotino di Puskas” e in effetti sono in molti a ritenere Lajos Detari, uno dei talenti più cristallini del calcio ungherese pre anni duemila.

Eppure malgrado la sua classe naturale, questo attaccante dai piedi fatati non ebbe grande successo alla fine, travolto da un carattere decisamente particolare che ne ha minato la crescita e la consacrazione.

Profeta in patria

La carriera calcistica di Lajos Detari comincia nelle giovanili del Honved, per poi proseguire in prima squadra, dove si mette subito in mostra con il suo grande talento. Tre campionati nazionali consecutivi (e una Coppa d’Ungheria), segnando più di un gol ogni due partite di media (72 reti in 134 presenze).

E questo nonostante sia più un giocatore dal tocco di palla elegante, da una visione di gioco completa e soprattutto di capacità tecniche eccellenti, ma forse non proprio un predatore d’area. Ciò nonostante, la squadra iniziale è la stessa che fu di Puskas trent’anni prima e i paragoni tra i due si sprecano.

L’erede del grande campione sembra finalmente trovato (anche se lontano dai suoi numeri, che in maglia del Honved lo avevano visto segnare qualcosa come 352 reti in 341 partite).

Ma erano altri tempi, e se in quel periodo l’Ungheria offriva forse il miglior calcio al mondo, per Detari arrivò subito l’esigenza di mettersi in mostra altrove, di crescere il suo bagaglio tecnico puntando a palcoscenici più importanti.

Cosa che puntualmente fece, prima in Germania nelle fila dell’Eintracht Francoforte (con cui conquistò una Coppa di Germania, oltre a diventare il miglior calciatore straniero di quella stagione con 11 reti realizzate) e poi in Grecia, dove in due stagioni con l’Olympiakos mise in carniere un’altra Coppa nazionale e 35 reti (in 61 presenze).

Poi arrivò finalmente la chiamata dall’Italia.

Lajos Detari Lex

Quello del 1990 è un Bologna reduce da una splendida stagione di Serie A, con un ottavo posto che le valse la qualificazione in Coppa Uefa.

C’era quindi l’esigenza di rafforzare la rosa cercando soprattutto uno straniero che potesse “spostare gli equilibri”. E quel nome l’allora Presidente Corioni lo individuò proprio in Lajos Detari.

Un prospetto di alta caratura, non a caso nel mirino anche di altre società più blasonate, tanto che il suo arrivo nel capoluogo emiliano fu considerato un vero e proprio colpo di mercato. Non era infatti un mistero che l’Avvocato Agnelli avesse una particolare predilezione per il talentuoso magiaro, forse suggestionato anche dalla nazionalità ungherese che per una certa generazione di appassionati calcistici equivale a parlare dei brasiliani ad oggi. La trattativa con la Juve non decollò mai anche per alcune relazioni sul carattere del giocatore, che poco sembrava adattarsi allo stile compunto e pochino naif richiesto dalla Veccihia Signora.

Il calciatore che si presenta al primo allenamento in maglia rosso blu però, è infatti ben lontano dall’idea del mite e timido ragazzo dell’est. Ciuffo biondo al vento della sua Porche cabrio, si presentò ai giornalisti con una frase che è entrata poi nella storia (non fortunatissima): “In mio piede ci cantano gli uccelli”.

E se il racconto si fermasse a quelle prime amichevoli precampionato, ci sarebbe la lustrarsi gli occhi. Contro il Napoli (campione d’Italia) in amichevole, l’ungherese prende la palla e lascia per terra un paio di uomini prima di far partire un missile che si infila nel sette con Galli immobile. Per i tifosi è già l’idolo che stavano cercando. Per gli ungheresi un sogno che si avvera, finalmente. Peccato che da quel momento, tutto andrà decisamente storto.

La caduta degli Dei

Genio, talento e tanta (tanta) sregolatezza. Non stiamo parlando degli eccessi alla George Best, non erano quelli il problema di Detari. Il buon Lajos aveva altro in mente, più precisamente un certo delirio di onnipotenza. Ora che il suo portafogli era gonfio, lo potevi vedere arrivare agli allenamenti con almeno una fuori serie nuova ogni due o tre settimane.

In campo il suo tocco di palla era qualcosa di straordinario. Lanci di quaranta metri che finivano sul piede dei suoi compagni al millimetro. Finte e controfinte, pallone attaccato al piede. Pure troppo. Perchè l’impressione era che Lajos stesse giocando per se stesso, e nemmeno sempre, solo quando ne aveva davvero voglia.

La stagione con il Bologna poi, fu un calvario di infortuni che lo videro in infermeria per metà del campionato. E anche quando scendeva in campo, solo in alcune occasioni fu davvero determinante, più impegnato a litigare con chi non gli passava il pallone (da quale pulpito) o con gli addetti ai lavori per qualunque cosa andasse contro i suoi voleri (si narra di leggendarie litigate con i suoi magazzinieri).

Un tipetto piuttosto difficile quindi, che inciampò anche in un’annata pessima per tutta la squadra rossoblu, che chiuse all’ultimo posto in classifica retrocedendo in Serie B, malgrado un quarto di finale in Coppa Uefa (in cui comunque Lajos giocò solo tre partite).

L’anno seguente restò in serie cadetta, ma gli stimoli furono ancora meno, culminati poi in un clamoroso gol sbagliato in quel di Messina, che il giocatore dichiarò pubblicamente di aver tirato fuori appositamente (chiudendo di fatto la sua parentesi felsinea).

Non va molto meglio gli anni a seguire, con il passaggio prima nell’Ancona (dove subisce un’altra retrocessione dalla Serie A) e poi una parentesi nel Genoa (poche comparsate in campo).

Finisce nell’oblio tra la Svizzera e il ritorno a casa in quel del BVSC Budapest. La sua carriera però si era già conclusa da un pezzo, fin da quando nella sua testa aveva finito la voglia, accantonando per sempre quel (inclemente) paragone con il mito di Puskas a cui il buon Lajos, si è avvicinato solo per pochissimi (rari) momenti di classe.