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Si può migliorare una squadra all’apparenza perfetta?

Si può cambiare la storia eppure avere ancora voglia di ritoccarla, cambiarla, quasi innalzarla? La Juventus del 1996 aveva vinto tutto: Lippi non solo era riuscito a portare a casa risultati, ma aveva rivitalizzato un gruppo e dato fiducia a uomini chiave come Vialli, Del Piero, Conte.

Era una squadra di uomini e da quegli uomini era appena iniziato un ciclo importante: non per questo i dirigenti finirono per sedersi sugli allori, anzi. Proprio nell’anno in cui arrivarono le grandi vittorie, si decise soprattutto per l’inizio di un nuovo percorso. Che dal mercato avrebbe creato probabilmente la Juventus più forte di tutti i tempi.

Non quella dei reduci del Mundial 1982, nemmeno quella della finale del 2003: la Juve degli ultimi anni Novanta ha dominato copertine, ha spaventato gli avversari, ha passeggiato fianco a fianco con la storia di una squadra che, volente o nolente, ha sempre saputo cambiare e per certi tratti migliorarsi.

Prima delle tante vittorie degli anni Dieci, nella mente è rimasta proprio quella Juventus: con Montero e Ferrara in difesa, con Di Livio e Zidane a centrocampo, con Del Piero e Boksic in attacco. Appena privata di capitan Vialli, appena ancorata sul talento del numero 10.

Il mercato della Juventus nel 1996

Ecco, a proposito di Vialli: il capitano, vinta la Coppa dei Campioni, aveva deciso di salutare tutti, come se si fosse compiuto un destino e quel destino fosse proprio il suo.

Nell’estate 1996, i bianconeri si ritrovarono senza Vialli, pronto ad andare al Chelsea; salutarono anche il vice capitano Fabrizio Ravanelli, finito al Middlesbrough, e il metronomo Paulo Sousa, al Borussia Dortmund.

In una voglia matta di rivoluzione, Massimo Carrera finì all’Atalanta, Vierchowod invece andò al Perugia. Iniziò sostanzialmente l’opera di ringiovanimento, quella che avrebbe avuto Del Piero come simbolo, quella che però intrigò particolarmente la stampa per alcune scommesse niente male.

Il primo: Christian Vieri, promettentissimo attaccante, in arrivo dall’Atalanta; il secondo: Nicola Amoruso, altro gioiellino che la Juve chiedeva e otteneva dal Padova (l’ultima punta, qualche anno prima, proprio Ale Del Piero).

Infine, in difesa e dalla Salernitana, arrivò Mark Iuliano. Inutile aggiungere sull’occhio di chi costruì quel gruppo: i tre hanno fatto la storia del calcio italiano e della Nazionale, solo Iuliano restò però a lungo a Torino, di bianconero vestito.

Due colpi atipici avevano però rubato la scena. Andiamo in ordine crescente di importanza e allora partiamo da Paolo Montero: difensore arcigno, duro, difficile da digerire per tanti attaccanti del nostro campionato. L’Atalanta l’aveva lasciato partire un po’ riluttante, Paolo ci mise nulla a entrare nel cuore dei nuovi tifosi per l’attitudine e l’atteggiamento.

Dall’altra parte, quasi a scherzare con la durezza di Montero, arrivò la leggiadria di Zinedine Zidane. Un artista. Prima regista, poi il cuore pulsante della trequarti.

La rosa della Juventus 1996-1997

Diciannove italiani, due francesi, un croato, un uruguaiano e uno jugoslavo. Soluzione al rebus facile facile: era un gruppo solidissimo, quello costruito da Lippi. Che di fumo ne faceva con il sigaro, sul lavoro era tutto arrosto. E cioè: una squadra costruita non solo per competere con le sette sorelle in campionato, ma forgiata per tornare subito alla vittoria in Coppa dei Campioni.

Non doveva essere la sorpresa di una stagione: doveva diventare la certezza da accompagnare alla storia secolare della squadra. A tal proposito: proprio in quel 1997, la Juventus entrava nel centenario. Tutti si aspettavano grandi cose. E grandi cose arrivarono, proprio perché una grande squadra fu costruita.

Peruzzi, Rampulla e Falcioni era il solido gruppo dei portieri. In difesa, era stato intanto confermato Moreno Torricelli; ancora in bianconero anche Sergio Porrini e la sorpresa Gianluca Pessotto. Davanti ai giovani Iuliano e Montero, la grande certezza era l’esperienza di Ciro Ferrara: era diventato un campione già a Napoli, a Torino si confermò tra i migliori nel suo ruolo. Nell’ottobre del 1996, arrivò anche Dimas, dritto dal Benfica: non lasciò un grandissimo ricordo.

Il centrocampo migliorò sensibilmente: nonostante avesse perso la qualità di Sousa e di Marocchi, ormai al tramonto della carriera, la Juve affidò la squadra ad Antonio Conte, ufficialmente capitano. Attorno a lui, la corsa di Di Livio, l’intelligenza di Didier Deschamps e le ultime cartucce di Attilio Lombardo, fuori per buona parte della stagione a causa di un problema fisico. Nessun problema: al suo posto ebbe modo di crescere Alessio Tacchinardi, duro e crudo, non raffinato ma dritto al punto. Lippi impazziva per lui.

Tutto girava attorno a Zidane: sarebbe stato lui il sostituto di Sousa, lui a calarsi nei panni del play e a far girare la squadra. In realtà, dopo un periodo di adattamento, Lippi capì di doverlo avanzare, di dovergli affidare una parte di campo già più decisiva. Accadde anche con Jugovic: di quel centrocampo, era forse il vero ispiratore.

In attacco? Ogni domenica, ampia scelta e giocatori pronti a sacrificarsi per la squadra. Boksic era la certezza e i gol di ogni fattura, Padovano sapeva essere bomber e gregario, Amoruso e Vieri divennero subito determinanti e non solo a partita in corso. Il numero 10, la grande tradizione che continuava, da Platini a Baggio, era sulle spalle di Alessandro Del Piero. Fresco di consacrazione europea, si apprestava a confermarsi uno dei migliori giocatori al mondo.

Una stagione incredibile

La prima parte di stagione iniziò sull’onda dell’entusiasmo – e ce n’era da vendere -: la Juve tenne testa a Inter e Vicenza, passando proprio con i nerazzurri nella prima gara clou della stagione.

Al Delle Alpi, Jugovic e Zidane chiusero sul 2-0 le speranze dell’Inter di recuperare in campionato; in Champions, la Juve superò facilmente il Manchester United e il Fenerbahce, vincendo il girone con 16 punti.

Il primo trofeo arrivò subito a novembre: arrivò la Coppa Intercontinentale, la seconda della storia bianconera. La Juve superò a Tokyo il River Plate, con una rete di Del Piero all’81: palla che spiove sul secondo palo, ribattuta, rimbalzo, destro che s’infila dove in pochi l’avrebbero infilato.

L’estasi è totale, dell’addio alla Coppa Italia (per mano dell’Inter) importa poco o nulla. A inizio anno, la Juve rallenta di poco il passo: Samp e Parma sembrano poter recuperare, ma i bianconeri vincono partite decisive e si tengono in vetta. Vincono soprattutto il match di Parigi, l’andata della Supercoppa Uefa contro il Psg: nel doppio confronto non c’è mai storia, ed ecco qui un altro trofeo alzato con uno scarto totale di 9-2, il più ampio mai registrato nelle finali Uefa.

Nei mesi successivi, la Juve si tenne al primo posto, accelerò dopo il 6-1 a San Siro contro il Milan campione in carica – partita destinata alla storia – e il ventiquattresimo scudetto arrivò già alla penultima giornata: 1-1 a Bergamo, contro l’Atalanta, il Parma fermo a 2 punti. La felicità era tanta, ma non era ancora esplosa.

Il motivo? Tutti attendevano il 28 maggio del 1997, tutti guardavano Monaco di Baviera con la sensazione di una ciliegina ormai certa su una torta ben costruita. Dopo aver superato il Rosenborg ai quarti e l’Ajax in semifinale, la Juve attendeva il Dortmund di Sousa nella finalissima della Champions League: secco 3-1 per i tedeschi, a nulla servì un colpo di tacco maestoso di Del Piero.