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In una storia secolare come quella della Juventus, valutare l’elenco della voce rimpianti è un esercizio di sicuro successo. Impossibile non ritrovare storie. Assurdo non innamorarsi delle più grandi, particolari, emozionanti.

Thierry Henry è una delle principali, in casa Juve. Non solo perché è stato matricola e meteora, non solo perché ha saputo raccontare come nessuno la grandezza e la furiosa lucidità di anni in cui tutto era possibile perché semplicemente tutto era accessibile.

La sua esperienza a Torino è durata centonovantasei giorni; poco dopo è diventato uno dei migliori centravanti al mondo, liberando il suo talento come una gazzella e pungendo come un’ape in ogni occasione, in ogni azione, su qualsiasi assist avversario.

Henry è stato un delirio d’onnipotenza della Juve. L’aveva richiesto Ancelotti, già certo di approdare in bianconero nell’estate del 1999. Se lo ritrovò Lippi, già sicuro di lasciare la Juve per andare all’Inter nella stessa estate. Se lo ritrovò l’attacco, orfano di Del Piero e quindi di gol, di guizzi, di passaggi decisivi e di certezze un po’ smistate ovunque.

Moggi, nel tentativo di riempire un vuoto enorme, provò intanto a prendere Sukur, senza successo. Tornò a Torino con Esnaider. Infine si regalò Titì. Come quando provi ad accumulare per rimediare al senso di colpa.

L’esperienza di Henry

Contrariamente alla credenza popolare, Henry era già Henry quando è arrivato alla Juventus. Aveva vinto una Ligue1 da protagonista. Aveva segnato sette gol in Champions League.

Aveva dimostrato tutto quel talento poi sfoderato in seguito, diventando leader tecnico ed emotivo di una squadra dalla storia meravigliosa come l’Arsenal. Dunque, quando Moggi lo prese in meno di 24 ore, strappandolo alla concorrenza proprio dei Gunners, sembrò certamente un fulmine a ciel sereno. Ma non certo il presagio di una tempesta di delusione.

La Juve aveva bisogno di rinforzare il suo reparto offensivo, orfano di Del Piero, reduce dal brutto infortunio sul campo di Udine. Nell’altalena di prestazioni, la squadra di Lippi, che vagava e girovagava verso la metà classifica, si era improvvisamente bloccata dal punto di vista offensivo, sperimentando la difficoltà non solo nel far gol, ma anche nel creare occasioni e definire un piano d’attacco.

Henry serviva a quello. Serviva a dare quel tocco di imprevedibilità necessario ai bianconeri per vivere oltre il sopravvivere. Una scossa per ridare elettricità alla squadra. Venne fuori che era troppo giovane, per alcuni. Che non era il suo ruolo, per altri. Che non era abbastanza, per qualche cieco.

Il ruolo di Ancelotti

Dopo la sconfitta di Parma, Lippi si costringe a dare le dimissioni, portando immediatamente Ancelotti a Torino.

Qui cambia tutto, e spera di cambiare anche Henry. Che per Lippi è un pivot d’area, con Carletto invece è uno da profondità, un attaccante esterno.

Nel rombo ancelottiano, Thierry parte titolare contro il Piacenza: farà male in mezzo, si risolleverà sugli esterni. In generale, sembra mancargli la lucidità in area, quell’attacco da rapace che fa la differenza (e coprirebbe il vuoto di Del Piero). La voce zero alle reti marcate prosegue fino al Vicenza. Ancelotti pensa: forse è un problema di posizione.

Il risultato? Lo sposta diretto sulla fascia. Ma è una fascia da fare tutta, da ‘3’ a ‘7’, da esterno basso a esterno alto. Henry ci prova. Ci prova tantissimo. Corre più chilometri di tanti altri e prova a strappare la Juve, la sua Juve, con il sacrificio pur patendo la mancata libertà di fare tutto e di più del suo talento.

I giornali sono impietosi: a Cagliari è gravemente insufficiente, a Piacenza lo stesso. Contro l’Inter qualche lampo, ma non dà una traccia di presente o di futuro.

“Sono una seconda punta libera”, dirà. E farà poi il vice Zidane, ben figurando contro la Roma. Sembra la svolta, è solo l’inizio della fine: nonostante le tante assenze, Ancelotti non lo schiererà più in avanti, non gli darà mai più lo spazio necessario per colpire con il suo talento. E lo perderà. Inevitabilmente.

Con Moggi che prima prova a girarlo in prestito all’Udinese – immaginate? -. che poi cede e lo vende all’Arsenal. Aveva fatto un gran colpo. Troppo improvviso, non improvvisato.