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Che cosa dovrebbe accadere quando un calciatore che ha militato fino a poco tempo prima in una squadra segna, dopo aver cambiato casacca, proprio alla sua ex squadra?

Un atto rivoluzionario

È una domanda filosofica, ma anche esistenziale, profondamente umana.

Massimo Fini, nel suo ultimo libro Storia reazionaria del calcio, scritto insieme all’esperto di calcio femminile Giancarlo Padovan, ha scritto ad esempio: « Non esultare dopo un gol è un diritto più che del giocatore direi della persona ed esula dal dominio del calcio ».

Si può essere d’accordo o meno con questa lettura, ma rimane il dato di fatto (e di fondo): spetta all’uomo, alla persona come la chiama Fini, il diritto di esultare o meno.

In un calcio come quello attuale – abituato ad un’unica misura, quella del guadagno economico – vedere un calciatore che non esulta dopo un gol è già un gesto rivoluzionario.

Ma lo è altrettanto quello dell’esultanza veemente, e per lo stesso principio di fondo: perché rimane un gesto autenticamente umano. D’altra parte l’odio e l’amore sono fatti della stessa sostanza.

Qualche esultanza da ex

È piuttosto l’indifferenza ad aver guidato le critiche dei grandi intellettuali del passato – su tutti Dante Alighieri. Così Quagliarella, dopo aver segnato contro il Napoli con la maglia del Torino (2016), ha deciso di non esultare consapevole delle conseguenze – l’avventura col Toro, di fatto, terminerà per lui quel giorno.

E così Pedro, nell’ultimo derby casalingo giocato dalla Lazio (26 settembre 2021), ha deciso di esultare e come dinnanzi al suo vecchio pubblico – per il quale certo ha giocato una sola stagione, ma Roma tende ad amplificare lo spaziotempo.

L’esempio principe dell’esultanza in faccia ai propri ex tifosi, però, rimane quella di Emmanuel Adebayor (nel 2009) contro l’Arsenal (club col quale l’ivoriano ha totalizzato 142 presenze, condite di 62 gol e 22 assist): una corsa sfrenata da un lato all’altro del campo per andare poi a scivolare sotto il settore dei tifosi Gunners.

Una dinamica che ricorda un episodio celebre del nostro calcio, la corsa di Carlo Mazzone sotto il settore dei tifosi atalantini dopo il 3-3 in rimonta del Brescia nel derby lombardo.

ci sarebbero una montgana di esempi e scelte differenti da poter citare: dall’infastidito Ronaldo nel derby che voleva sentire i fischi nerazzurri, allo stranito Higuain di un Napoli Juve di qualche anno fa.

Abbiamo solo citato alcuni esempi per certificare l’ambivalenza della scelta.

Esultare oppure no?

Esultare o no, dunque? Non si può rispondere di sì, non è giusto rispondere di no. Tra il rispetto – se così può chiamarsi – e la sfacciataggine – termine inappropriato – c’è il buon senso.

Sia chiaro, da una parte come dall’altra: perché il discorso potrebbe essere capovolto all’altro capo d’imputazione, il tifoso.

Se il tifoso non ci sta e si scaglia a suon di fischi contro il proprio ex (senza che altro, oltre il cambio di casacca, entri in gioco nella dinamica della relazione), non può prendersela se il calciatore in questione, segnando contro la sua ex, andrà ad esultare.

Tra l’essere e il non essere, da una parte e dall’altra, c’è l’umanità.

Che è fatta di sentimenti, e che dai sentimenti spesso si lascia trascinare.