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Con il 5-0 rifilato alla Birmania il 16 novembre scorso, il Giappone ha confermato di essere la nazionale più in forma del pianeta. In quella sfida, la prima del girone B per le qualificazioni asiatiche al mondiale del 2026, sono andati a segno Doan, Aeda (tre volte) e Kamada: tutti e tre giocatori che a livello di club calcano i campi dell’Europa che conta.

Non sono gli unici, anzi: il Giappone, delle nazionali asiatiche, è quella col maggior numero di calciatori ‘europei’, alcuni dei quali assoluti protagonisti coi rispettivi club nei migliori campionati del mondo. Qualcosa in effetti, da qualche tempo a questa parte, è cambiato all’ombra del Sol Levante. Il calcio non è più uno sport da inseguire ma da vivere. La domanda è: come è stato possibile qualcosa di simile? Cosa ha portato il Giappone ad essere una delle nazionali più forti del pianeta e i suoi calciatori a passare da ‘scommesse esotiche’ o ‘pedine di marketing’ (per i mercati orientali) a pezzi pregiati del calcio europeo?

Il progetto ‘DNA’

La velocità di un corpo è data dalla relazione sussistente tra l’accelerazione dello stesso e il tempo impiegato nel produrla. Il Giappone, da sempre terra di cervelli sopraffini, ha preso la formula un po’ troppo alla lettera quando si è trattato di applicarla al calcio. In effetti in materia di pallone, la velocità non è tutto. Conta altro: conta la qualità individuale, la prontezza fisica e la tenuta mentale. Così nel 2016, la Federcalcio nipponica ha avviato un programma nominato Progetto DNA, un piano ideato per sviluppare il talento naturale dei ragazzi nati in Giappone. Nello specifico, l’addestramento è stato rivolto soprattutto agli allenatori, e alla loro capacità di studiare metodi condivisi ricavati dall’allenamento delle squadre europee.

Come noto, i calciatori giapponesi apprendono in fretta, sono sempre molto disponibili all’ascolto – per ragioni culturali – e umili nel lavoro. Anche se Kamada è un classe ’96 e nel 2016 aveva già 20 anni, non c’è dubbio che quel piano abbia cambiato qualcosa anche del suo gioco. Oggi, a 26, Kamada – per fare un esempio vicino a casa nostra, il calciatore gioca alla Lazio – è un giocatore dinamico, veloce, tecnico, in una parola europeo.

Se pensiamo poi che a livello storico il Giappone, che negli ultimi anni ha certamente accelerato il processo di crescita antico almeno un ventennio, è per tradizione una delle squadre più forti del continente asiatico – capace infatti di raggiungere i Mondiali ininterrottamente dal 1998 al 2022, sette edizioni di fila –, ecco che vedere questa nazionale oggi non può stupire. E pensare che Nakata fu il primo giapponese di sempre, nel vicino 1998, a sbarcare in Europa – sponda Roma. Oggi, su 26 calciatori presenti in rosa, 19 militano in campionati europei. Giocano tutti ad alti livelli, in Bundesliga, Premier, Serie A, ma anche in Spagna, meno in Francia, molto in Scozia – sponda Celtic, diventata negli ultimi anni sorta di colonia giapponese per volontà dell’ex allenatore Postecoglou. Qualche nome? Kubo, fuoriclasse della Real Sociedad, Kamada, Ito – una delle sorprese più luminose della Bundesliga quest’anno, allo Stoccarda –, Furuhaski, Morita, Tanaka, Ueda, Minamino, tra i più noti.

I dati di una crescita lampante

Nelle ultime 7 gare, il Giappone ha segnato 29 reti. Significa più di 4 reti di media a partita. Voi direte: ma sono tutte amichevoli. Tolta la Birmania in effetti (5-0, come detto), le ultime sei gare del Giappone sono capitate in contesti esterni alle competizioni ufficiali.

Ma è altrettanto vero che i nipponici hanno affrontato anche squadre come Turchia e Germania, rifilando quattro reti ad entrambe (sic!). Il Canada poi non è certo una piccola squadra, al contrario: ma il Giappone ha colpito e affondato anche quest’ultima, concludendo la serie dei sei successi di fila contro El Salvador (agli americani, i nipponici hanno rifilato 6 reti). E cosa dire di Perù e Tunisia? Contro i primi sono arrivati altri 4 gol, contro i secondi 2.

Numeri spaventosi che se faranno il paio con una tenuta difensiva di livello potrebbero regalarci una delle nazionali culto del XXI secolo. Da questo punto di vista comunque, quello difensivo s’intende, il Giappone è già molto avanti: nelle ultime sette gare, tra amichevoli e qualificazioni, i nipponici hanno subito appena 4 reti. Nel frattempo la squadra di Moriyasu ha già ottenuto il pass per la Coppa d’Asia di gennaio 2024, obiettivo importante e dichiarato tale dalla federazione.

Da Holly e Benji a Doan e Kamada

Abbiamo parlato in breve del Progetto DNA, ma c’è un altro aspetto che non va sottostimato quando parliamo della crescita del Giappone a livello calcistico: l’afflato culturale. Holly e Benji in questo senso ha certamente avuto un peso a livello nazionale, aiutando il calcio ad entrare dalla porta della cultura popolare, dove tanti ragazzi hanno attinto sognando di replicare le (impossibili ma meravigliose) gesta della nazionale cartonata.

All’epoca, poco prima degli anni Novanta, gli stadi in Giappone erano tutt’altro che all’altezza di un così arduo compito: quello di creare cioè un movimento calcistico serio nel Paese. Ma al contrario di tante realtà simili – su tutte Cina e USA –, la Federazione ha deciso di spendere molto sulle risorse interne, privilegiando il talento di casa ai faraonici ma sporadici e isolati acquisti dei calciatori – spesso a fine carriera – dall’Europa. Si è emulato un modello, appunto, non lo si è forzosamente scippato. Insieme all’emulazione, è arrivata la J. League 100-Year Vision, datata 1990: l’obiettivo era quello di avere 100 club professionistici e di vincere un Mondiale entro il 2092. Sono subito nate la seconda e la terza serie, e il calcio ha iniziato a svilupparsi rapidamente.

Il Giappone oggi è il risultato di quel lavoro e di quel progetto, che chiaramente non sono che nella loro fase embrionale. Eppure, l’ultimo Mondiale (dove i nipponici hanno battuto Spagna e Germania) ha dimostrato la bontà di quella visione. Ora si tratta solo di avere continuità, ma i recenti risultati mostrano che la strada intrapresa è quella giusta anche a livello psicologico. Il Giappone ha dalla sua la ricchezza di una tradizione culturale che fa della Nazione una ragione di vita: nell’esistenza di ogni giorno, e tanto più nel calcio. L’ottimismo è giustificato.