Vai al contenuto

Si dice che le immagini non siano in grado di catturare l’essenza di una res. «Imago dei», ad esempio, è l’uomo. Che è, appunto, ad immagine e somiglianza del Creatore. Somigliante, quindi non identico.

Ma c’è un’immagine, una fotografia nello specifico, che potrebbe smentire quest’aurea regola. Essa ritrae insieme, uno accanto all’altro, Robert De Niro, Sergio Leone, Gabriel Garcia Marquez, Muhammad Alì e Gianni Minà.

È il 1987 e i cinque compagni di viaggio si sono ritrovati, uniti dal genio e dalla testarda personalità del giornalista italiano, a mangiare tipica cucina romana da “Checco il carrettiere”, osteria trasteverina.

Dalla carta stampata alla tv

Ecco, questa foto è come il simbolo, l’emblema tangibile, di un personaggio che ha dedicato alla ricerca, all’indagine giornalistica, sportiva e geopolitica, tutta la sua esistenza. Classe 1938, Gianni Minà nasce a Torino in un periodo significativo della storia mondiale. La stessa che con la sua inconfondibile verve riuscirà a raccontare nel corso di tutta la seconda metà del Novecento – e oltre.

Ha 21 anni quando inizia a lavorare al quotidiano sportivo torinese Tuttosport – all’epoca tra i fiori all’occhiello del giornalismo nostrano. Presto, all’attività di scrittore, inizierà ad affiancare quella di conduttore. Nel senso etimologico della parola.

Fonda e dirige, con forme sempre nuove, monumenti veri e propri del palinsesto televisivo italiano. Perché se l’artigianato della parola scritta rimane per Minà un elemento distintivo della sua carriera, la conduzione orale non è da meno. È il 1960 quando inizia a lavorare in Rai. Con la principale emittente mediatica italiana vivrà sempre un rapporto conflittuale di amore e odio. Le sue posizioni scorrette, il suo giornalismo corsaro e controcorrente, non lo hanno di certo aiutato nella relazione con mamma Rai. La quale, pure, lo ha lanciato nella televisione che conta, spesso dandogli la possibilità di rivoluzionarla.

Prima viene assunto come collaboratore per i servizi sportivi, poi inizia a seguire per la rete pubblica le Olimpiadi (ne contiamo cinque nel suo palmares), i Mondiali (tre) e i più importanti incontri di pugilato. Che quest’ultima disciplina sia per Minà la più importante, lo testimonia il titolo della sua autobiografia: Storia di un boxeur latino (Minimum Fax, 2020).

Le sue più ardite conduzioni sono senza dubbio L’altra domenica (con Maurizio Barendson e Renzo Arbore) e Blitz (pieni anni Ottanta), un vero e proprio cult – ma che all’epoca fece la rivoluzione del talk show televisivo – nel quale Minà riusciva a mettere insieme personaggi diversissimi ma di comune provenienza: storica la puntata con Troisi, Benigni e Carmelo Bene, che nella circostanza provò ad insegnare all’attore toscano la corretta lettura di Dante.

L’America Latina come nessuno l’aveva mai raccontata

Negli stessi anni, Minà conduce anche Sprint, lavorando al contempo per Tv7 con trasmissioni quali Dribbling e Odeon, Tutto quanto fa spettacolo e Gulliver. Egli è ormai un volto noto, celeberrimo, della televisione italiana. Viene così assunto, dopo diciassette anni di precariato, al Tg2. Qui collabora come giornalista non solo di sport, occupandosi in maniera particolare di America Latina.

Sono anni difficili per la consorella degli US. Lo sono soprattutto per l’Argentina, che vive col Mondiale del 1978 il dramma insieme misterioso e noto a tutti dei desaparecidos. Minà segue personalmente la squadra Argentina, che lo ammonisce per aver fatto domande scomode al capitano di vascello C.A. Lacoste (capo dell’ente per l’organizzazione del mondiale) durante una conferenza stampa.

«Ho fatto un giornalismo controcorrente, cercando di utilizzare metodi nuovi. Passavo ore per verificare una notizia, un particolare. Quando andavo in conferenza stampa, chiedevo sempre al pubblico di essere smentito. Ma non accadeva mai».

E in effetti, se non con la violenza e il silenzio, l’arma di chi non sa cosa rispondere, anche in quell’occasione Minà ebbe la meglio sull’inquisito – nel caso specifico, la federazione argentina. Tre anni dopo Minà riceve da Sandro Pertini, Presidente della Repubblica, il Premio Saint Vincent come miglior giornalista televisivo dell’anno. Collabora con Mixer insieme a Giovanni Minoli.

Nel 1987, poi, la grandezza di Gianni Minà si trasforma in mito vivente. Intervista Fidel Castro per 16 ore. Ne nasce un libro che verrà tradotto in tutto il mondo e che, ancora oggi, rimane l’opera prima per chi vuole conoscere e apprendere il giornalismo di Gianni Minà.

Quando cade il comunismo, i due si incontrano nuovamente. Le due interviste verranno condensate in Fidel e nel reportage Fidel racconta il Che. Su Che Guevara, Minà scriverà insieme ad Alberto Granado, che lo volle al Tg2, In viaggio con Che Guevara. Sempre con Fidel Castro, Minà realizzerà un’intervista prima della morte nel 2016.

Il fascino dei grandi e del sud

D’altra parte Minà ha sempre avuto un debole per i grandi personaggi della storia. In politica e nello sport. Da Fidel Castro a Maradona, da Che Guevara a Muhammad Alì – di cui era divenne grande amico, e sul quale ha scritto nel 2014, per Rizzoli, Il mio Alì.

Di Maradona, sono più le cose non dette che quelle raccontate. A testimonianza di un giornalismo d’altra epoca e d’altra staffa. Minà sa tutto di Diego, che ha vissuto nei bei momenti, quanto in quelli bui. Per questo dopo la sua morte ha chiesto il più assoluto silenzio. Lui, almeno, non avrebbe aggiunto nulla all’immenso dolore.

Negli anni ’90, Minà continua a produrre in televisione.

Alta classe è un programma particolarissimo, in cui vengono tratteggiati i contorni, i ritratti, di alcuni grandi artisti come Ray Charles, Pino Daniele, Massimo Troisi, Chico Buarque de Hollanda.

Nello stesso anno, 1991, presenta La domenica sportiva e partorisce Zona Cesarini, più tradizionale rispetto alle geniali novità da lui apportate in televisione. Tra gli altri programmi ricordiamo Un mondo nel pallone, Ieri, oggi… domani? e due edizioni di Te voglio bene assaje, show ideato da Lucio Dalla.

Tra i grandi documentari che hanno scolpito in calce il nome di Gianni Minà, ricordiamo quelli dedicati a Nereo Rocco, Diego Armando Maradona, Michel Platini, Ronaldo il Fenomeno, Carlos Monzon, Nino Benvenuti, Edwin Moses, Tommie Smith, Lee Evans, Pietro Mennea e Muhammad Alì.

A quest’ultimo ha anche dedicato Cassius Clay, una storia americana (lungometraggio). Nel 1992, inizia a lavorare con sempre più insistenza sul mondo latino-americano, la sua grande passione. Tutt’oggi dirige la rivista letteraria Latinoamerica e tutti i sud del mondo. Già il titolo fa intendere un altro fatto decisivo nella sua vita: Minà si è sempre schierato a fianco delle minoranze, dei deboli o, detto alla sua maniera, di quelli che vivono e lottano nel sud del mondo – sia esso Sudamerica o Meridione italiano, poco importa.

Pubblica altri libri e collabora a Storie dal 1997. Nel 2002 esce Un mondo migliore è possibile, nel 2007 Politicamente scorretto, nel 2017 Così va il mondo, nel 2021 Non sarò mai un uomo comune, dedicato a Diego Armando Maradona.

Nemmeno Minà potrà mai esserlo. Senza stare a ricordare i numerosissimi riconoscimenti, tra cui il Premio Kamera della Berlinale per la carriera da documentarista, il più prestigioso al mondo, nel 2007, senza considerare la cittadinanza onoraria napoletana conferitagli da De Magistris nel 2017, di Minà rimane sempre quel qualcosa di segreto che non ci è concesso sapere. Non subito perlomeno.

Come lui stesso amava fare tratteggiando personaggi grandiosi. Tanto grandi da chiedersi come facesse ad intervistarli tutti. «Quando mi dicevano: “Quello non dà interviste, è impossibile”, capivo di potercela fare. Mi intestardivo e ottenevo quel che volevo».

Tutto questo senza mai mettere da parte la qualità della narrazione, il primo pilastro di chi vuole affrontare questo mestiere con serietà e dedizione: «La gente consuma quello che tu gli dai».

Chi ha letto e ascoltato Gianni Minà, è cresciuto bene.