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“Se Maradona non avesse incrociato la mia strada, non sarei stato il giocatore che sono stato”. Partiamo da qui, dalle sue parole dopo il ritiro. Perché poi è l’essenza di ciò che è stato Gianfranco Zola: l’erede designato. Di Maradona. E da Maradona. Cioè, una differenza sostanziale. Perché mai prima la divinità calcistica per eccellenza aveva lasciato un ‘dopo’ di sé. Aveva fatto un nome. Regalato idealmente la Dieci.

E pensare che Gianfranco, all’epoca appena ventitreenne, era arrivato al San Paolo con l’idea di essere solo di passaggio. Toccata del mito e fuga verso un posto al sole altrove. L’intenzione era quella di diventare grandissimo, ma non ha mai avuto la presunzione di diventare enorme come il suo “predecessore” al Napoli. Di fatto, il buio, il vuoto, il nulla che D10S lasciò alle sue spalle fu come Attila sull’erba: non rimase neanche un filo.

L’inizio e la grande occasione

Ci sono due momenti che definiscono la carriera di Zola. Il primo: il gol al Genoa in maglia azzurra, che di fatto segnò una parte fondamentale dello scudetto del 1990. Il secondo: il passaggio al Chelsea. Due momenti che quel ragazzino che iniziò a giocare a calcio nella Corrasi di Oliena, paesino di settemila anime in provincia di Nuoro, per poi passare proprio alla Nuorese e iniziare da lì il suo percorso, non si sarebbe immaginato neanche in mille vite.

E invece capitarono tutte a lui, scoperto nel 1989 da Luciano Moggi in C1 e portato immediatamente a Napoli per 2 miliardi di lire. Esordì nello stesso anno, schernendo chi gli continuava a ripetere che centosessantotto centimetri non fanno un attaccante. Ma il suo mestiere, e presto si capì, non era quello del gol: era il contorno, il concerto tra centrocampo e reparto offensivo, tra l’inizio e la fine di un’azione. Maradona e Careca furono i primi a intravedere in questo ragazzino la qualità dei più grandi, il pensiero fine, l’umiltà che si contrapponeva alla guasconeria sudamericana. Entrò nel giro dei più grandi, in quello spogliatoio, meritandosi applausi scroscianti e un solco nella storia.

Sì, perché in tanti ricordano il fallimento e il peso di quella Dieci – ereditata prima metaforicamente, poi concretamente da Maradona -, ma nell’anno del debutto tra i grandi Zola ebbe un inizio strepitoso: segnò contro l’Atalanta una rete pesantissima, quindi il colpo al Genoa, permettendo al Napoli di mantenere il distacco dal Milan diretto inseguitore. Vinse quello scudetto, poi la Supercoppa. Fu chiamato dal Lecce, ma il Napoli lo tenne e provò a farne il perno della ripartenza. A febbraio del 1991 era il “nuovo Maradona” e nella stagione successiva le giocò tutte. Dodici gol con Ranieri, ancora un altro anno di fatica solitaria.

La scelta di vita

Nel 1993, il Parma di Scala aveva bisogno di una luce e Zola di un riscatto. C’era il Mondiale negli Usa a un passo, e Sacchi – che quei gol napoletani li aveva visti tutti – lo consigliò al ‘suo’ Parma. Detto, fatto: 13 miliardi e le proteste dei tifosi partenopei, che accusarono il giocatore sardo di alto tradimento. In realtà, la storia era stata ben diversa rispetto alle cronache di allora: gli azzurri volavano verso una situazione economica drammatica, fu di fatto messo sul mercato.

In Emilia fu amore a prima vista: Supercoppa Uefa nel 1993, Coppa Uefa nel 1995. Era il leader tecnico in una squadra costruita non per vincere, ma per stupire. Nel 1995, oltre al talento, dimostrò una continuità mai vista prima, tale da fargli scalare la classifica del Pallone d’Oro di quello stesso anno. Sembrava un amore inarrestabile, quello con il Tardini. Poi arrivò Stoichkov, era un doppione. Poi arrivò Ancelotti, e giocava col 4-4-2 e lo metteva esterno di centrocampo. Poi Zola si stufò. E fece una scelta di vita.

Il volo per Londra portò un assegno al Parma di 12,5 miliardi di lire. I tifosi non capirono, Gianfranco nemmeno. Doveva ripartire per un equivoco strutturale, venendo definitivamente a capo su come il talento alle volte non basti a colmare il resto. Non può farlo mai. Comunque, in Inghilterra c’era un vecchio amico: quel Luca Vialli che l’aveva incrociato in nazionale, con il quale si poteva parlare e che ormai in Premier era un personaggio unico. Ecco, lo diverrà pure Zola. Per i tocchi in campo, per l’umiltà dimostrata fuori. Si prese applausi ed elogi della stampa locale: a quanti, a memoria, è capitata una storia così?

Da Magic Box al romanticismo

Così Magic Box al termine della prima stagione vinse una Coppa d’Inghilterra. E ancora la Coppa di Lega Inglese nell’anno successivo, quindi la Coppa delle Coppe, e ancora la Supercoppa Uefa. Proprio nella finale di Coppa delle Coppe arriva una favola incredibile: partito dalla panchina, Zola entra a metà della ripresa e venti secondi più tardi trova il modo di decidere il match.

Nel 2000, indovinate un po’ chi si rivede? Con un minimo di memoria calcistica, non farete fatica. C’è Claudio Ranieri. Con il quale Zola torna a giocare, a segnare, a far innamorare Stamford Bridge. Andrà via nel 2004, non prima di aver ricevuto un titolo onorifico dalla Regina Elisabetta: Gianfranco sarà per sempre Sir, Membro dell’Ordine dell’Impero Britannico.

Dopo sette stagioni all’estero, Zola tornò in Italia e lo fece per la scelta di cuore più bella e passionale: il Cagliari era tornato in B e in un anno riuscì immediatamente a chiudere i conti e a riportarla in alto. Nel 2004-2005, la sua ultima stagione agonistica, chiusa con una gara epica sul campo della Juventus (fece doppietta).

Al termine, arrivò il Pallone d’Argento: la Serie A lo premiò come giocatore più corretto della stagione. Un amore breve ma intenso, quello con i rossoblù. Dopo Gigi Riva, c’è il suo nome nella hall of fame del club.

Ah, postilla finale: l’amore per la Nazionale è sempre stato fortissimo. Sacchi lo chiamò per la prima volta nel 1991. Fu convocato per Usa ’94 e tutti ricordano la sua faccia dopo l’espulsione agli ottavi di finale contro la Nigeria (che gli costò due giornate fuori). Maldini lo reintegrò e un’altra grande favola gli riempì la carriera: indovinate chi, apprezzato e amato dagli inglesi, segnò il gol vittoria a Wembley nelle qualificazioni a Francia ’98? Quante storie. Quanta bellezza. Tutta in una magic box.