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Può esistere un Derby d’Italia senza polemiche? Sì, ma è estremamente raro, e l’edizione numero 180 appena andata in archivio non è stata certo tra le meno virulente.

Quello che ci interessa, oggi, è capire quanto Inter e Juventus hanno lasciato nell’infuocato catino di San Siro, che tossine ha rilasciato il match, chi ne esce meglio e chi peggio.

Diciamo subito che chi vi scrive è di fede juventina, seppure da anni estremamente critico con la società. Questo non lo dico per una improvvisa voglia di finire sulla pagina “Io, professione mitomane – war edition”, ma per sgombrare il campo da malintesi.

Inter-Juve, a chi giova la narrazione tossica

Come altre volte è capitato, si preferisce una narrazione tossica a una più onesta e asettica. Questo fa gioco a entrambe le fazioni, da decenni. Non si capisce a chi convenga di più, ma è così. Non si spiega altrimenti che un episodio discusso, avvenuto al 23′ del 1° tempo, sia da considerare come decisivo per la partita.

Lo era l’inesistente fallo da rigore di Perisic su Cuadrado nel maggio 2021, perché avvenuto negli ultimissimi minuti. Lo era il gol annullato a Milik a fine recupero di Juve-Salernitana. In generale è corretto considerare decisivi gli episodi che avvengono a ridosso della fine del match, o che ne deformano gli equilibri.

Un gol subito per errore al minuto 23 non può essere un jolly come quello che Simone Inzaghi ha tentato di giocare, quasi ad autoassolversi per le 9 sconfitte stagionali su 27 giornate. Nella fattispecie, la sua Inter non è stata capace di un (1) tiro in porta in tutta la ripresa, nonostante un forcing che nel finale si era fatto intenso.

L’episodio-chiave e il grande errore dell’AIA

Ma togliamoci il dente e chiudiamo i discorsi relativi al contestato mani-non mani di Rabiot nell’azione che ha portato al gol di Kostic. Diciamo subito che si tratta di un episodio molto, molto borderline, di quelli per intenderci che ti fanno incazzare se ti capitano contro. Tutto ruota intorno alle immagini, e qui va subito messo in chiaro l’errore alla base da parte dell’AIA.

I protocolli sono ancora troppo astrusi, mentre dovrebbero essere “a prova di scemo”, o meglio a prova di tutta quella manica di tribuni che soffiano sul fuoco dell’odio sportivo, per guadagnare follower sui social e magari presentare qualche libro.

Inaccettabile non è che accada un episodio del genere, come lamenta Inzaghi, ma che esso non preveda una gestione comunicativa efficace da parte dell’istituzione arbitrale. Il VAR era solo il primo passo, quello successivo deve essere il coinvolgimento in prima persona dei direttori di gara, per spiegare le decisioni prese, soprattutto le più intricate. Come avviene in NBA, come è avvenuto in via sperimentale al Mondiale per club.

Se Chiffi avesse preso il microfono e annunciato che “il gol non può essere annullato per mancanza di immagini che diano certezza dell’esistenza di un tocco illecito”, sarebbe stato sì subissato dai fischi di San Siro, ma almeno avremmo saputo per tempo chi e perché ha preso quella decisione.

In caso contrario, si presterà sempre il fianco a mille dietrologie e la troppo spesso annunciata “maggiore trasparenza” rimarrà lettera morta.

Derby d’Italia: come ne esce l’Inter

Simone Inzaghi sceglie Brozovic, che è il regista titolare della squadra ma in questa stagione è stato fermo a lungo e non ha ancora ritrovato il passo dei tempi migliori. Il fatto che le ultime 3 sconfitte (Bologna, Spezia, Juve) siano arrivate con Brozo titolare può essere un caso, ma forse no. Il croato sembra ancora troppo leggero, per fronteggiare un centrocampo dinamico come è diventato quello juventino. Non a caso l’ingresso di Mkhitaryan ravviva la manovra, ma risulta tardivo perché nel frattempo i compagni erano abbastanza stremati. L’armeno entra per Barella, altra delusione e co-autore del pasticcio sul gol: il nazionale azzurro si attarda a protestare per il tocco di mano e non chiude su Rabiot, che serve il serbo per il gol-partita.

Sul gol delude moltissimo anche Dumfries, e non è la prima volta che l’olandese casca in errori difensivi da matita rossa, ma rosso fuoco.

Per il resto Lukaku dura un tempo, Lautaro nemmeno quello. L’argentino sta attraversando un momento estremamente negativo, in campo è costantemente anticipato anche se gli va dato atto di avere tirato la carretta alla ripresa del campionato dopo la sosta mondiale (6 gol nelle prime 7 partite). Ora è in riserva, ed è un peccato perché Lukaku sta lentamente tornando a standard accettabili e la “vera” LuLa servirebbe come il pane, per insinuarsi nei raffinati piani del Benfica.

Infine, Simone Inzaghi. Non è la prima volta che il tecnico dà l’impressione di effettuare cambi tardivi, o non migliorativi. Più volte ci si è chiesti come mai non un giovane ritenuto di gran valore come Asllani non riesca a trovare spazio nelle rotazioni: l’ultima presenza in campo dell’ex Empoli è il misero minuto giocato ai primi di febbraio con il Milan, l’ultima da titolare è addirittura contro il Sassuolo, a ottobre. Di Inzaghi vanno ricordati anche i meriti, e uno innegabile è quello di avere aiutato Calhanoglu a diventare una mezzala completa, con qualità ormai da consumato mediano che si sono viste anche ieri. Però dall’allenatore dell’Inter ci si aspetta qualcosa in più, inutile negarlo.

E anche la sua gestione della comunicazione sembra inadeguata a una società ambiziosa a livello europeo: il tormentone dello “spiaze” può far sorridere una volta, due, ma Simone Inzaghi deve operare un salto di qualità anche da quel punto di vista, se vuole imporsi in piazze importanti.

Derby d’Italia: come ne esce la Juve

Sulla Juventus di questa stagione pendono non una, ma settecento spade di Damocle. Anche qua, come quanto accaduto con Inzaghi in occasione del gol di Rabiot, Allegri ha usato spesso le vicissitudini contrarie (i tantissimi infortuni prima, la storia della penalizzazione poi) come alibi per cercare di far guardare altrove gli interlocutori. La sua Juve è stata letteralmente inguardabile per gran parte dell’autunno, con débâcle poco dignitose come quella del Maccabi e dell’andata col Monza.

Poi, però, gli va dato atto di aver ripensato la squadra e anche rivisto i propri errori. Ancora non si capisce cosa ci faccia a Torino uno come Leandro Paredes, soprattutto uno con l’atteggiamento di Leandro Paredes. La sua poco memorabile performance di ieri, in cui è riuscito a farsi prima ammonire in 7 minuti e poi cacciare dopo il fischio finale per la solita rissa, è solo l’ultima di una lunga serie. Il suo arrivo ha tolto minuti e fiducia ai tanti giovani interessanti che stanno venendo su nel club. Fortunatamente, Allegri ha capito che affidare la squadra alla leadership di Manuel Locatelli – e mettergli intorno la freschezza di talenti puri come Fagioli e Miretti – poteva essere una buona idea. E poi ieri ha trovato spazio da titolare anche il piccolo Soulé. Per un allenatore che è spesso stato accusato di non saper valorizzare i giovani, è una piccola rivincita.

Alla fine Allegri ha avuto l’innegabile merito di ricostruire la Juventus dalle macerie. Macerie tecniche, di una rosa sopravvalutata e superpagata, e macerie societarie che abbiamo scoperto solo quest’anno. Però, tra le macerie da rottamare è emerso, come la mappa nascosta di un tesoro, un Rabiot tutto nuovo. Finalmente “cavallo pazzo” è diventato organico alla squadra, cosa che non gli era mai riuscita nei 3 anni precedenti in bianconero. Nessuno in Serie A ha quel tipo di fisicità, che può diventare letale. Se ne è accorto ieri Barella, altre volte decisivo nel Derby d’Italia ma ieri completamente sovrastato dal francese.

Lo Sporting Lisbona è dietro l’angolo, la nuova Juve non ruba l’occhio, ok, ma fa quello che gli chiedono milioni di tifosi: lottare, rimanere aggrappati alle partite, fino alla fine. Che non è solo uno slogan, visto che la Juventus è la squadra che ha segnato più reti oltre il novantesimo (5), in Serie A. La Juve europea di inizio stagione sembrava invece un vaso di coccio tra i vasi di ferro, era vulnerabilissima appena le partite si mettevano male. Quello è un problema che deve ancora essere risolto, considerando che la Vecchia Signora è andata sotto nel punteggio relativamente poche volte in campionato (8), ma solo in una occasione ha vinto (la settimana scorsa con la Samp) e solo in 3 è uscita con punti.

I tanti minuti accumulati dai giovani lasciano ben sperare, perché l’esperienza e la personalità si costruiscono sul campo.