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Siamo abituati a credere che dal successo – o dall’insuccesso – della nostra vita passi la felicità eterna.

Lo pensiamo – inconsciamente o meno, non ha importanza – così intensamente che non fa problema dirci tutti calvinisti. La dottrina della predestinazione è per noi quasi un assioma.

E il calcio non fa eccezione almeno per due motivi (tra loro intimamente connessi): 1) perché lo sport in generale, e il calcio in particolare, si misurano continuamente con la dimensione del successo (la cui perdita o il cui ridimensionamento hanno un peso specifico differente dagli altri mestieri); 2) perché la dimensione supereroica degli sportivi accentua, anziché superarlo, il coming out del problema da parte loro.

Dal caso Enke in poi

Tracciare una storia del problema della depressione in ambito calcistico non è facile. Eppure è necessario. Lo è almeno dal 10 novembre del 2009. Da quando, cioè, il portiere della nazionale tedesca Robert Enke si tolse la vita. Nei mesi precedenti non aveva detto nulla. Non aveva avvertito nessuno sulla propria condizione mentale e psicofisica, i suoi compagni non avevano notato nulla di strano o di allarmante.

Probabilmente Enke non era stato troppo esplicito nemmeno nei confronti della moglie Teresa, donna dall’animo di ferro in grado di reagire a quel dolore immenso con la fondazione di un’associazione (chiamata come il marito, appunto) in aiuto dei calciatori che soffrono di depressione.

Prima di lui, un altro portiere, sempre tedesco, era caduto vittima della stessa malattia – iniziamo a chiamare la depressione col suo nome proprio. Parliamo di Oliver Kahn, leggenda del Bayern Monaco e della nazionale tedesca che dopo la finale persa in meno di 120 secondi contro il Manchester United di Sir Alex Ferguson (stagione 98/99) accusò un malessere psicofisico quasi insopportabile, al punto che si vociferò anche di un suo addio anticipato dai campi di gioco.

In Italia il problema, noto “ufficialmente” dalla denuncia di Christian Vieri nel 2007 – quando più o meno formalmente accusò l’Inter di avergli costruito una sorta di recinto di controllo attorno all’abitazione per rilevarne spostamenti, movida notturna, ingressi e uscite, orari.

Un male oscuro anche in Italia

Abbiamo scritto “ufficialmente” tra virgolette, perché già la vicenda di Agostino Di Bartolomei, morto suicida il 30 maggio del 1994, è in questo senso tristemente simbolica. La data di morte di Ago, a dieci anni esatti dalla finale di Coppa dei Campioni contro il Liverpool, ha fatto pensare che l’estremo gesto fosse connesso alla ricorrenza della più drammatica sconfitta nella carriera del capitano giallorosso (poi rossonero).

Ridurre però un malessere così radicale ad un evento sportivo è fuorviante. La verità è che Agostino, uomo di intelligenza fine e profonda, stava male già da un bel po’, e non solo a causa degli insuccessi sportivi.

Prendete Gigi Buffon. La sua spiegazione alla depressione (per quanto sia sbagliato parlarne in questi termini) è diametralmente opposta. Per il campione del mondo azzurro il malessere è arrivato quasi in contemporanea ai primi successi da portiere della Juventus.

La vita, si chiedeva Gigi, era tutta lì? Successi, sconfitte, calcio, e poi? Ti senti un supereroe, almeno per qualche ora, «ma non lo sei. Sei soltanto un uomo come gli altri. E la verità è che la pressione di questo mestiere può trasformarti in un robot. La tua routine può diventare una prigione. Vai ad allenarti, torni a casa e guardi la tv. Vai a dormire. Fai lo stesso il giorno dopo. Vinci, poi perdi. Così, all’infinito».

«Una mattina, – continua Buffon nell’appassionante confessione a The Players’ Tribune, – quando scendi dal letto per andare ad allenarti, le tue gambe iniziano a tremare senza controllo. Sei così stanco che non riesci neanche a guidare. Inizialmente, pensi sia solo fatica, o magari un virus. Ma poi va peggio. Tutto ciò che vuoi fare è dormire. All’allenamento, la più banale parata sembrerà uno sforzo titanico. Per sette mesi, non ho saputo cosa significasse provare gioia nel vivere».

Un problema globale ancora presente

Secondo i più recenti dati del Servizio Sanitario Nazionale e dell’Osservatorio Mondiale della Sanità (OMS), il 7% della popolazione mondiale soffre di depressione. Nel calcio, oltre ai già citati Enke, Kahn, Vieri, Buffon, ricordiamo i casi di Danny Rose, Andres Iniesta – colpito più di altri dalla scomparsa dell’amico Dani Jarque, a cui dedicherà il mondiale sudafricano –, Adriano, e più recentemente Ilicic.

«Ho avuto paura», aveva detto in estate con le parole, forse troppo frettolose, di chi è convinto di aver superato con successo una malattia terrificante. Ilicic ha avuto una ricaduta, proprio come era accaduto ad Adriano.

Spesso per i calciatori la depressione è un problema che si affaccia al termine della carriera, ma tanto per lo sloveno quanto per il brasiliano la storia è differente – e d’altra parte così è stato per gli altri esempi che abbiamo voluto ricordare, proprio a testimonianza di un problema che va ben al di là del successo professionale nella propria vita lavorativa.

All’apice del successo con l’Inter Adriano era arrivato a rifugiarsi nella villa (in Brasile) ostaggio dei boss locali, trafficanti di armi e di droga. La causa? Sempre la depressione, che lo fa sentire vuoto e come “dentro a un buco senza uscita” per citare Di Bartolomei.

Adriano non è mai riuscito a riprendere una condizione psicofisica decente, neanche ottima. Il suo peso è aumentato stagione dopo stagione, sotto i suoi occhi si è gonfiata una coltre di nebbia, rabbia e tristezza mai più sbiadita. Il suo aspetto è quello di chi «dalla depressione non è mai guarito, forse non è mai riuscito neanche a convincerci».

La depressione è una malattia, e ci riguarda tutti. Non c’è talento che conti, siamo tutti uguali dinnanzi alla vita.