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Quando ci si desta dal sonno dopo un incubo, lo spavento dura pochi minuti.

Ci si sveglia sudati, freddi, talvolta pallidi e con una strana sensazione in corpo. Ma presto il malessere lascia spazio alla consapevolezza che la realtà, in fondo, è tutta un’altra cosa. “Era solo un brutto sogno”, si ripete la mente tra sé e sé, quasi per allontanare lo spauracchio.

Quello era un incubo, questa è la realtà. Così, uscendo dal mondiale – dannatamente reale – credevamo di essere inciampati in un incubo di tal sorta.

Forse è per questo che le cattedre di Gravina e Mancini non sono mai davvero vacillate: il ricordo dell’Europeo vinto era ancora troppo fresco per fare i conti con la realtà. Che però ieri si è presentata in tutta la sua forza e durezza, d’emblée. A sentire le dichiarazioni di Mancini dopo lo 0-3 contro l’Argentina nella Finalissima di Wembley, la sensazione è quella di stare dentro l’incubo senza sapere come uscirne:

«Ora sappiamo che ci saranno momenti duri, un po’ come stasera. Bisognerebbe anche fare in fretta, sbagliare il meno possibile, ma credo ci vorrà un po’ di tempo in più: a me l’entusiasmo non manca, ne ho da vendere, anzi a volte mi manca non poter allenare tutti i giorni, ma il ricostruire sarà anche più duro di quattro anni fa, perché abbiamo giovani che non giocano neppure in A. Però in questo gruppo ci sono anche giocatori importanti, che non sono vecchi e quando avranno ripreso un po’ di forze dovranno darci una mano con i più giovani. Che dovranno imparare in fretta».

Una strada lunga

Ritorna dunque il discorso sui giovani – come se quello fosse davvero l’unico problema.

Ritorna straziante come un ritornello della Bestia il frasario delle sentenze fatte, senza cuore spente smunte pallide: “ora sappiamo che ci saranno momenti duri”, “bisogna lavorare in fretta”, “l’entusiasmo non manca”.

Il problema è che l’entusiasmo può anche illudere, nascondere i momenti duri, celare sotto la panchina dello spogliatoio la polvere del lavoro non-fatto o rimandato.

Sui giovani, certo, ma più in generale su un sistema pieno di falle, che manca di una progettualità seria e pensata, critica e futuribile.

In questo momento all’Italia manca la materia prima: i giocatori di qualità. Troppi sono i buoni giocatori, nessuno (escluso forse Chiellini, che però lascia quest’anno, e Donnarumma ieri decisivo nonostante lo 0-3) campione. Hai voglia, poi, a criticare Immobile per i pochi gol.

Ieri l’attacco è cambiato (ben due volte), ma sono rimasti terrificanti i soliti problemi offensivi (quelli che di fatto ci hanno fatto arrivare secondi al girone di qualificazione al mondiale): «Abbiamo grande difficoltà ad andare in gol: dall’Europeo in poi, questo è stato un dato di fatto. Dobbiamo lavorare molto, impegnarci, trovare soluzioni. Ho in mente di cambiare diverse cose, lo faremo: non è importante il sistema di gioco, contano i giocatori. Dovremo mettere insieme una squadra, e all’inizio ci sarà da soffrire».

È quantomeno curioso che uno come Mancini parli di giocatori e non di sistema. Ma come, non era lui il nuovo profeta di un calcio offensivo, spettacolare, coinvolgente, dove i piccoletti hanno preso il sopravvento sugli spilungoni iperfisici? Come va, dunque, la spagnolizzazione della nazionale? Davvero contano solo i giocatori?

Contano, senz’altro, ma gran parte di questi giocatori ha vinto l’Europeo. Conta dunque anche l’approccio, le parole dell’allenatore, la sua tranquillità (che manca). Basti guardare come gioca oggi l’Argentina, una squadra che ormai da vent’anni ha una rosa tra le top 5 al mondo, oltre ad avere in squadra il miglior giocatore del pianeta, e che però solo con Scaloni ha davvero cambiato marcia.

La dura realtà contro l’Argentina

Ieri l’Italia ha potuto giocare solo per una scarsa ventina di minuti nel primo tempo. Poi è uscita fuori l’Albiceleste, ha segnato con Lautaro Martinez su gran percussione di Messi – migliore in campo con Di Maria – e ha impreziosito i restanti sessanta minuti di gara con un possesso palla qualitativo, capace di alternare momenti di altissimo calcio (con parecchie chiare occasioni da gol) ad un palleggio ubriacante, tanto da mandare al manicomio Di Lorenzo, solitamente tranquillo e ieri sera invece molto nervoso.

L’Italia ha perso più di cento palloni, recuperandone appena 56. Ha commesso tanti falli, e il numero sui tiri in porta è impietoso: 9 quelli dell’Argentina, di cui tre in rete e sei negati da uno strepitoso Donnarumma. 3 quelli degli Azzurri, quasi nessuno pericoloso. Sul possesso palla, 55% a favore dell’Argentina, poco da aggiungere.

Salgono dunque a tre le sconfitte della Nazionale nelle ultime sette partite: sono gli stessi ko registrati nei precedenti 45 incontri, 10 i gol incassati dall’Italia nelle ultime sette partite, tanti quanti ne aveva subiti nelle precedenti.

A centrocampo – quel reparto che aveva fatto le fortune dell’Italia all’Europeo – Barella è l’unico a salvarsi (5.5, massimo 6), Jorginho è ormai l’ombra di se stesso e l’assenza di Verratti si fa sentire sempre di più.

Quando entra, anche Locatelli non va oltre il 5. In attacco, poi, non possiamo giocare senza Chiesa. Forse neanche senza Berardi. Per non parlare di Insigne e Immobile, spesso criticati ma fondamentali per mole di gioco prodotta.

Dall’altra parte, ha incantato Angel Di Maria (futuro giocatore della Juventus?), Messi è stato divino, Lautaro chirurgico ma anche visionario in occasione del gol di Di Maria.

Il peggiore in campo? Emiliano Martinez, che non si è mai sporcato i guanti. Ora l’Italia è attesa da quattro partite di Nations League, contro Germania, Ungheria, Inghilterra, di nuovo Germania. Dal 4 al 14 giugno. Si salvi chi può.