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L’azionariato popolare nel mondo del calcio è entrato di prepotenza nelle cronache sportive di tutti i giorni dopo la conclamata crisi di molte delle società più blasonate a seguito della contrazione di introiti dovuta alla pandemia di Covid-19.

Una situazione che ha innescato una serie di reazioni a catena, dal pasticcio della Superlega all’iniziativa Interspac che proverà a rendere protagonista la formula dell’azionariato popolare legata al calcio come avviene già in altri paesi.

Prima si poteva, ora si deve

Il naufragato – almeno per ora – progetto della Superlega, come tutte le rivoluzioni finite male, ha condotto a riva questioni decisive, altrimenti ignote – almeno al grande pubblico. L’azionariato popolare è senz’altro una di queste. La crisi mondiale causata dalla pandemia ha coinvolto tutti i settori, dalla piccola alla media impresa, fino ai colossi calcistici europei, americani, sudamericani e asiatici.

Non è un caso se i due padri fondatori del progetto Superlega, Perez e Agnelli, rappresentino anche i presidenti di due delle società più titolate – e celebri – del pianeta: Real Madrid e Juventus. The show must go on, nonostante la crisi. Ma come? Fermiamoci soltanto alla squadra campione d’Italia della scorsa stagione, l’Inter dei Suning. La proprietà cinese, vuoi per la crisi mondiale, vuoi per le restrizioni economiche imposte dal governo del dragone, è stata costretta a rivedere tanto i propri standard occidentali quanto quelli orientali. E parliamo di un club che dalla scorsa stagione ha incassato tanto, tra sponsor e vittorie. Sicuramente più di altri.

Negli ultimi mesi una voce su tutte, dall’ambiente nerazzurro, si è fatta promotrice di un nuovo modello sostenibile a livello sportivo ed economico: Carlo Cottarelli, presidente di Interspac, economista ed editorialista italiano nonché ex direttore del Fondo Monetario Internazionale. Non proprio un nome qualunque. Forse è per questo che l’idea dell’azionariato popolare è divenuta in poco tempo il nucleo del futuro calcistico (almeno italiano).

Il programma di Cottarelli, che si basa su alcuni illustri modelli esteri, su tutti quello inglese e tedesco, prevede essenzialmente l’ingresso in società – tanto nominalmente quanto, ovviamente, finanziariamente – di coloro che più di chiunque altro alla società – e ai suoi successi – tengono in prima persona: i tifosi. Lo vedremo nel dettaglio più avanti. Prima però facciamo un passo indietro e cerchiamo di capire cosa significhi davvero l’azionariato popolare.

Cosa è l’azionariato popolare?

Nella celeberrima opera di Platone, La Repubblica, oltre a svariate questioni di etica, morale, religione, il grande tema – dal titolo dell’opera – è quello riguardante la partecipazione (non solo politica, ma economica) dei cittadini alla polis. In fondo, l’azionariato popolare non è altro che questo: la partecipazione dei tifosi alla propria polis, cioè alla squadra. Non come giocatori, non come allenatori né come dirigenti, ma come soggetti che partecipano alle azioni del club – appunto, azionariato popolare.

Quest’idea ha principalmente due obiettivi:

  1. Consolidare il legame tra club e tifoseria attraverso la partecipazione diretta di quest’ultima alle vicende di quello e
  2. Garantire al club una base economica stabile, non soggetta ai mutamenti del mercato e non necessariamente legata all’ottenimento dei risultati sportivi.

Chiaramente, più questi ultimi vengono raggiunti, più è probabile la crescita delle azioni e del titolo in borsa del club. Ma questo è un passaggio secondario. In primo luogo è fondamentale creare una base di tifosi forte, una Community pronta ad investire in prima persona sul club di appartenenza.

Se in Italia gli esempi sono molti (fin dai primi decenni del Duemila ci hanno provato, con vicende e fortune alterne, l’Ancona, la Cavese, il Lebowski, l’Ideale Bari, e più recentemente il Torino, la Roma, il Frosinone, il Palermo, l’Aquila), è però all’estero che si contano i più importanti e riusciti tentativi.

L’azionariato popolare del Bayern e il modello tedesco

Partiamo dal modello tedesco delle Eingetragener Verein (in italiano “associazioni registrate”) e del 50+1. In Germania, premessa necessaria, i club sono storicamente nati come associazioni nelle quali tutti i soci partecipano attivamente alla vita del club. Qui vengono eletti i rappresentanti del consiglio di amministrazione, e il fenomeno dei padroni dei club è pura chimera – ci sono chiaramente degli esempi, non a caso osteggiati dalla stampa e dal popolo, come il Red Bull Leipzig.

Alla fine degli anni ’90 la Federcalcio tedesca ha permesso ai club di ampliare questa prospettiva in una di natura più commerciale, vicina agli esempi italiani (da Ferlaino a Berlusconi, passando per i presidentissimi Rozzi, Anconetani, Lenzini, fino ai giorni nostri con De Laurentiis, Ferrero, Lotito, etc.). Attenzione però, perché la stessa Federcalcio tedesca, per preservare la natura popolare dell’economia e dell’amministrazione dei club, ha inserito una clausola al patto commerciale: il 51% delle quote deve restare nelle mani delle associazioni di soci del club.

In questo modo, pur assistendo all’ingresso di presidenti-padroni, i veri padroni del club (a maggioranza) sono rimasti i tifosi. Come ha scritto A. Fabbri, bisogna però tenere in considerazione «il contesto peculiare in cui è nata la Germania appena riunificata: qui la cultura aziendale tedesca, storicamente orientata alla co-gestione (Mitbestimmung), è basata sul coinvolgimento dei lavoratori nei processi decisionali». Inutile dire, ma è bene ricordarlo, che il cambiamento in Italia, qualora l’idea di Cottarelli dovesse essere emulata da altri club, non può non implicare un mutamento di mentalità. Si direbbe quasi una conversione. Quante volte infatti abbiamo assistito a scontri tra club e tifoseria nel nostro Paese? Quante volte abbiamo letto striscioni volti a sottolineare la differenza tra maglia, quindi storia del club, e presidenza? Il punto è proprio questo: bisogna capire che le due cose possono e devono, in questo momento storico, andare a braccetto.

L’azionariato popolare sul modello Barcellona

Lo ha capito, ad esempio, la Spagna, un altro paese che, più simile culturalmente al nostro, ha però capito con anticipo l’importanza di una forte coesione (economica, decisionale e progettuale) tra club e tifoseria, ovvero soci del club. La Ley del Deporte del 10/1990 ha stabilito il passaggio alla proprietà di privati grazie a una nuova forma giuridica ad hoc, denominata SAD (Sociedad Aútonoma Deportiva). Accanto al Barcellona, esempio principe, troviamo anche Real Madrid, Osasuna e Athletic Bilbao come modelli di azionariato popolare.

Mès que un club, i soci del Barcellona, possono gridarlo con senno di causa. 150.000 soci in tutto il mondo, con il 2,5% sorteggiato per comporre l’assemblea generale, che detiene il potere di approvare il bilancio e le sponsorizzazioni, di modificare lo statuto societario, così come di richiedere mozioni e riunioni straordinarie. L’organo si interfaccia con una Junta di circa venti soci, che ha il compito di coadiuvare il presidente – eletto ogni 4 anni. Certo, al momento il Barcellona vive tempi difficili, che non a caso l’hanno costretta ad entrare nella Superlega. Ma qui l’azionariato c’entra poco. I problemi dei blaugrana sono antichi e riguardano l’accumularsi decennale e devastante di spese e contratti folli.

L’azionariato popolare nel calcio inglese

Dalla Spagna passiamo all’Inghilterra, il primo paese dove l’azionariato popolare ha davvero lasciato un’impronta decisiva e duratura. Parliamo, nello specifico, del Supporters’ Trust. Negli ultimi vent’anni numerosi gruppi di tifosi si sono associati allo scopo di entrare nella proprietà del proprio club, tanto per contrastare l’operato del presidente – dopo l’onta del fallimento – quanto per rinsaldare il legame tra piazza, tifosi, e società.

Senza approfondire i casi estremi, come lo United of Manchester, club fondato da zero dai tifosi dissidenti della presidenza americana del Manchester United, citiamo l’AFC Wimbledon, fallito e rigenerato grazie ai propri tifosi. Questi sono solo due dei tanti esempi di Community Clubs in cui la maggioranza societaria è detenuta proprio dai tifosi.

Esperimenti di azionariato popolare in Italia

L’Italia, ultima della lista – sia in senso temporale che qualitativo –, può però contare sugli esperimenti già citati all’estero per sintetizzarli in un nuovo programma d’unione tra tifosi e club. L’apripista in Serie A è il Trust My Roma che, attivo dal 2010, è riuscito a comprare una quota di azioni dell’AS Roma, acquisendo sempre più credibilità nel turbolento ambiente giallorosso. Certo, siamo ancora lontani da un vero e proprio azionariato popolare di maggioranza – o almeno vicino alla maggioranza –, ma è già qualcosa.

Massimiliano Romiti, presidente di My Roma, intervistato sempre da A. Fabbri, ha sintetizzato il problema italiano a meraviglia: «Nel nostro Paese siamo tradizionalmente legati ad un concetto sportivo di stampo padronale, per cui il “signorotto locale”, l’imprenditore di turno, può disporre a suo piacimento di un bene collettivo come una società sportiva, perché è lui “a tirare fuori il grano” in fin dei conti. Se vogliamo, la figura del presidente forte si riconduce ad un certo immaginario simbolico, caro a noi latini. Eppure questo modello oggi non è più sostenibile e lo sport professionistico necessita di una nuova visione. Lo dimostrano peraltro gli stessi deludenti esiti economici e sportivi del nostro calcio».

Per questo Romiti, insieme a ToroMio, associazione di tifosi, e APA Milan ha deciso di fondare il comitato Nelle Origini il Futuro (NOIF), che oggi annovera associazioni di tifosi italiane, come Parma, Modena, Rimini, Cosenza, Sassari Torres e Acireale, ed estere come l’Athletic Bilbao. Un primo importante passo verso il futuro, in comunione e in dialogo con i club di tutto il mondo.

Ricordiamo da ultimo il già citato Carlo Cottarelli, presidente di Interspac Srl, società promotrice dell’iniziativa dell’azionariato popolare nerazzurro. Egli, più di altri, ci appare come il vero volto in grado di cambiare la situazione nel nostro Paese. Nessuno come lui ha la credibilità – curricolare – per poter dar voce all’azionariato dei tifosi: «Vogliamo portare avanti un grande progetto di azionariato popolare per rafforzare l’Inter con capitali forniti da noi tifosi, integrati da risorse di investitori istituzionali, in un quadro economicamente sostenibile. Già avviene in altre gloriose società, come il Bayern di Monaco».

Il quale, guarda caso, non ha mai neanche guardato all’idea di Superlega. Il pericolo è sempre dietro l’angolo, e i tifosi costituiscono davvero il riparo dalla tempesta. L’unione fa la forza, dicono. Ora è il momento di dimostrarlo.