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Gli allenatori italiani sono i migliori al mondo. Come un rosario, ci piace ripetere e ribadire la nostra preghiera calciofila quotidiana. Da Trapattoni ad Ancelotti, da Capello a Sacchi, da Sarri a Conte, ad Allegri, a Mancini. Gli ultimi trent’anni di calcio hanno visto succedersi, uno dopo l’altro, grandi allenatori italiani.

Come se la lingua, l’intuizione e la poetica peninsulare bastassero a fare grande un ct. Un falso mito che è aggravato dalla storia non del calcio mondiale – che basterebbe chiaramente a smontarlo – ma di quello italiano. La Serie A, infatti, è stata profondamente influenzata dalle più disparate idee degli allenatori stranieri.

I primi allenatori stranieri: la scuola danubiana

A partire da Spensley, britannico innovatore e pioniere del football in terra italiana (al Genoa) – diversamente deve dirsi per un altro inglese, Roy Hodgson, gentleman al momento sbagliato ai tempi dell’Inter. Un altro allenatore inglese, William Garbutt, primo professionista a trasferirsi nel nostro Paese, sedette sulla panchina rossoblù del Genoa, rimanendovi fino alla soglia degli anni Cinquanta, per poi allenare Roma e Napoli.

Non soltanto il nostro calcio di inizio Secolo, e almeno fino al Dopoguerra, è un calcio povero, poco propositivo a livello tattico e caratterizzato semmai da poche e ineluttabili certezze – sulle quali costruirà le sue fortune il Paron Nereo Rocco, ideologo del catenaccio –, ma è un calcio che non guarda di buon occhio le innovazioni. Volente o nolente, il nostro calcio verrà profondamente influenzato dalla scuola ungherese – la più viva e intrigante scuola di calcio che sia mai esistita; un toccasana per il calcio mondiale, figurarsi per quello italiano.

A partire dagli anni ’20, furono tantissimi gli allenatori ungheresi protagonisti nel nostro paese. Basti pensare al Savona, sulla cui panchina si sedettero Payer, Dimeni, Hajos, Orth e Zilizy (anni Sessanta). Eppure, il doppio trionfo mondiale nel ’34 e nel ’38, sotto la guida dell’indimenticabile Vittorio Pozzo, quasi fece dimenticare al regime le cause profonde di quegli anni così trionfali e innovativi per il nostro paese – dal punto di vista calcistico e sportivo. Ci si dimenticò tutto d’un tratto dell’importanza dei tanti ungheresi, britannici e forestieri che avevano dato al calcio italiano risalto internazionale. Il genio italiano viene prima di tutto, anche quando non è italiano.

La storia, però, viene prima delle interpretazioni. Nella stagione 1938-1939, l’Inter era allenata dal tedesco Cargnelli, il Bari dall’Ungherese Ging, il Bologna dell’epoca in cui faceva tremare il mondo dall’austriaco Felsner (leggendario allenatore del miglior Bologna della storia), la Lazio dall’ungherese Viola, il Livorno dall’ungherese Lelovich, il Milan da un altro ungherese, Banas, il Napoli idem, dall’ungherese Payer, il Toro di Egri-Erbstein (altro maestro magiaro) e infine la Triestina di Nehadoma, altro ungherese predecessore di Rocco.

Detto altrimenti: il primo secolo del calcio italiano non parla italiano, almeno in panchina.

Duri e puri: Herrera e Liedholm

Tale fu l’influenza di Helenio Herrera sul calcio italiano, che l’allenatore nativo di Buenos Aires arrivò persino ad allenare la nazionale azzurra nel 1967. Dal 1960 al 1968 allenerà come è noto l’Inter. C’è chi sostiene che ad Herrera toccavano esclusivamente i compiti di preparatore atletico e motivatore (celebri, d’altronde, sono i suoi cartelli negli spogliatoi).

La formazione e le tattiche le sceglieva Armando Picchi, sempre secondo la vulgata. Curioso, se pensiamo che Angelo Moratti rimase a tal punto colpito dal tecnico argentino come avversario da chiamarlo subito a Milano ad allenare i nerazzurri. Una scelta a dir poco azzeccata. Herrera non è stato un innovatore, ma un vincente. Con l’Inter ha conquistato tre Serie A, due Coppe dei Campioni e due Coppe Intercontinentali in appena tre anni, dal ’63 al ’66. Il suo segreto era senz’altro psicologico, prima che tattico. Herrera era un motivatore eccezionale. Se la vulgata di cui sopra è senza dubbio falsa, non per questo è inverosimile.

Curiosa coincidenza, un altro Herrera guidava negli anni Sessanta i prati della nostra penisola calcistica. Ma il suo nome era Heriberto, l’altro Herrera. Un titolo se vogliamo spregiativo, meno però di quello che gli coniò Brera, chiamandolo l’Accacchino – Helenio veniva infatti chiamato Accaccone.

Anche Accacchino, ad ogni modo, puntava prima sulla psicologia e poi sulla tattica, ma con una sostanziale differenza. Helenio era un papà, Heriberto un generale: «Il movimento, così inviso al genio logoro e selvaggio di Omar Sivori, contemplava un’adesione globale alla manovra, assaggio del totalitarismo batavo. In assenza di tenori, l’orchestra incarnava il fine ultimo, e non un dispotico vezzo. Heriberto, paraguagio di rigida lavagna, passò per pazzo. Viceversa, era in anticipo su convinzioni e convenzioni» (Beccantini, 2013).

Ma la durezza di Heriberto non era puramente platonica. Si ha notizia di alcune zuffe risolte menando le mani tra lui e i suoi giocatori. In particolare Sivori, con cui scoppiarono molte cose ma mai l’amore.

Tutto il contrario di ciò che accadde tra il Barone e il nostro calcio. Nils Liedholm ha lasciato nella Serie A un’impronta indelebile, un marchio insostituibile. Dal 1973 al 1989 ha guidato la Roma, poi il Milan, di nuovo la Roma (Scudetto, Coppa Italia e finale di Coppa dei Campioni), ancora il Milan e nuovamente la Roma. Inserito nella Hall of Fame del calcio italiano nel 2016, è uno dei pochi eletti ad aver avuto la meglio della calda piazza romana. Come?

Con un’abile e imperscrutabile psicologia, ricordata sotto la forma della scaramanzia da Pietro Vierchowod, anche lui soldato di Roma e Milan: «Liedholm era molto superstizioso. Sulle maglie, ad esempio. Non potevamo prenderle, doveva consegnarle lui. Una volta, l’ho strappata dal mucchio, tanto sapevo il numero. Mi ha guardato malissimo: “Se succede qualcosa la colpa è tua. Non farlo più, capito?” Un’altra volta mi metto, per sbaglio, il suo cappotto: nelle tasche c’era di tutto. Ma proprio di tutto: sale, ciondoli, amuleti, boccettine, cornetti. Uomo fine e ironico ma credeva a queste cose».

Ci credeva forse anche Sven Goran Eriksson, altro svedese dal cuore d’oro, più gentleman inglese che burbero nordico. Ci credeva, dicevamo, perché solo il campione d’Italia con la Lazio nel 2000 poteva aver perso lo scudetto con la Roma a vittoria già ottenuta – contro il Lecce, nel lontano 1986.

La luce dell’est

Czeizler allenava l’IFK Norrköping, squadra svedese, quando il richiamo della Penisola si fece insistente e irrinunciabile. Arrivò in Italia nel 1949, chiamato dal Milan. Con sé portò Gunnar Nordahl e proprio Nils Liedholm. Insieme all’altro svedese, Gunnar Gren, i tre costituirono il Gre-No-Li (che ne sanno quelli della MSN?). Nel suo primo anno sulla panchina del Milan, vedendo l’andamento altalenante dei risultati dei suoi in Serie A, decise di provare un metodo d’allenamento differente. Grande intensità fino al giovedì, poi riposo totale.

Il risultato? Uno storico 7-1 alla Juventus, con Nordahl che ridicolizzò il povero Parola – la Juventus quell’anno vinse comunque il campionato. Non fu l’unico rocambolesco risultato del tecnico ungherese. Ricordiamo anche un 9-0 col Palermo e un 9-2 col Novara, oltre ad un doloroso 5-6 con l’Inter.

Con il Diavolo, Czeizler vinse lo scudetto nel 1951; nello stesso anno arrivò il trionfo anche in Coppa Latina. Gianni Brera, amante del catenaccio di rocchiana memoria, affermò che il Milan avrebbe potuto vincere anche di più, «se appena si fosse ricordato di onorare la difesa».

Che volete farci, questi sono gli ungheresi. Geniali innovatori. Così Arpad Weisz, che tra gli anni ’20 e ’30 del Novecento ottenne grandissimi successi con l’Ambrosiana e il Bologna, prima di venire scovato a Dordrecht dalle truppe naziste e condotto ai campi di sterminio. La luce dell’est. Non c’è altro modo di chiamarla, questa meravigliosa mente tattica ungherese, e non solo, che ha regalato al nostro calcio attimi di luce eterna.

Così Boskov, docente alla scuola per tecnici e allenatori di Coverciano sotto la guida di Italo Allodi, che conquistò uno storico scudetto con la Sampdoria nel 1991 – e una finale altrettanto storica contro il Barcellona l’anno dopo, dolorosamente persa a Wembley da Vialli e Mancini, che si rifaranno con gli interessi molto tempo dopo.

Così anche il Boemo Zdenek Zeman, non ungherese, ma nipote di quel Čestmír Vycpálek che fece grandi cose col Palermo e con la Juventus (anni Settanta). E che come i sopracitati ungheresi, da cecoslovacco – uomo geniale dell’est – ideò un calcio iper-offensivo, sorta di calcio totale ante-litteram. D’altra parte il nipote, Zdenek, qualcosa da lui deve aver preso.

Dall’esperienza a Licata a quella del Pescara, passando per Foggia, Lazio, Roma etc., il suo gioco è sempre caduto sotto il segno del calcio spettacolo. A tutti i costi, fregandosene del conservativo detto breriano. Il calcio è dei rivoluzionari, e Zeman lo è stato. Ma lo è stato anche un altro uomo dell’est: Mircea Lucescu. Romeno, ha tradotto sul rettangolo verde la cultura della propria etnia: non esistono i ruoli, ma la loro libera e poetica disintegrazione (neanche interpretazione).

Lucescu rimane il grande incompreso del nostro calcio. Approdato nel 1990 a Pisa come direttore tecnico, viene sollevato dall’incarico dopo una sconfitta col Cagliari nel marzo del 1991. L’anno dopo va a Brescia, e con le Rondinelle vince la Serie B.

In Serie A, ottiene un ambiguo quindicesimo posto, che costerà la permanenza in A alle Rondinelle per effetto dello spareggio con l’Udinese. Allenatore anche di Reggiana e Inter, farà le fortune dello Shakhtar – dove oggi, curiosamente, siede un bresciano doc, Roberto De Zerbi.

I comunicatori

È il 20 febbraio del 2010 e si gioca Inter-Sampdoria. Il punteggio è ancora di 0-0, ed è un caso perché l’Inter quell’anno è una schiacciasassi. In panchina siede José Mourinho, allenatore odiato da tutti, e amato fino alla morte dai propri tifosi. Il match è bollente perché l’arbitro ha lasciato i nerazzurri in 9 uomini prima della fine del primo tempo. L’allenatore portoghese, dopo il duplice fischio, si rivolge alle telecamere – non al direttore di gara, si noti bene – compiendo uno dei gesti più iconici della storia del nostro calcio: le manette.

José Mourinho ce l’aveva con la terna arbitrale, ma in realtà ce l’aveva col mondo. E il mondo, Mou, se l’è mangiato. Inutile ricordarne i trionfi, quel triplete indimenticabile, le continue frecciatine a stampa e avversari, perché lì fuori si nasconde sempre, soprattutto se invisibile, l’avversario. Sapete perché? Perché «un vincente non è mai stanco di vincere e io non voglio perdere mai». Ma soprattutto perché «chi sa solo di calcio, non sa niente di calcio».

Questo e altro Mourinho, l’allenatore straniero che più di ogni altro ha lasciato il segno nel XXI secolo nel nostro campionato, deve aver pensato anche di Rafa Benitez. I due erano amici, dice Rafa, «fino a quando abbiamo iniziato a vincere, poi lui ha cominciato a cambiare idea». Anche Benitez è un grande comunicatore, ma lo è – paradosso dei paradossi – in assenza di parole bollenti.

La sua comunicazione è il suo silenzio, ma sia con l’Inter che col Napoli Benitez ha vinto e come. Supercoppa italiana e titolo mondiale – dopo 45 anni – con l’Inter. Coppa Italia col Napoli, all’esordio. Come era avvenuto già con Valencia, Liverpool, Inter e Chelsea.

Ma c’è un ultimo grande comunicatore che è impossibile non citare: Rudi Garcia. La sua “sviolinata” il 5 ottobre del 2014 dopo la sconfitta per 3-2 allo Stadium contro la Juventus – partita a dir poco discussa – è l’altro memorabile gesto di un allenatore straniero nel nostro campionato. Dopo le manette di Mou, il violino di Rudi, che nel derby ha anche «rimesso la Chiesa al centro del villaggio» (no, non Federico). D’altronde «un derby non si gioca, si vince».

Se nella nostra rapida carrellata di storie dalla panchina abbiamo incontrato grandi tattici – soprattutto gli ungheresi della prima metà del Novecento –, grandi psicologi (Herrera, Liedholm) e grandiosi creativi, artisti dell’est (Boskov, Zeman, etc.), una menzione importante la meritavano anche i grandi comunicatori. Tattici, senz’altro, psicologi senza dubbio, ma grandi interpreti del proprio tempo – che antepone alla sostanza la comunicazione, cioè il mezzo per arrivare alla sostanza delle cose. Da Spensley a Garcia, si faccia sempre grande attenzione agli allenatori stranieri.

La Serie A è anche e soprattutto di chi la studia (e venera) dal di fuori.