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È il 20 aprile 1986. Giampiero Galeazzi, l’Omero della DS – e non ce ne voglia, Giampierone, per il paragone riduttivo –, nasconde con maestria la sua fede laziale quando, intervistando Sven-Goran Eriksson, gli fa notare – come se ce ne fosse bisogno – le lacrime versate dai tifosi giallorossi all’uscita dallo Stadio Olimpico, dopo uno stramaledetto Roma-Lecce 2-3.

Eriksson, con lo charme di un Lord e una calma che, tra i tifosi romanisti, quasi infastidisce, dopo un momento simile, riesce a rimanere lucido. È un’immagine drammatica. I tifosi della Roma ancora non sanno – né potrebbero mai immaginare – che proprio Eriksson, 14 anni dopo, riporterà lo Scudetto a Roma bensì, ma sponda Lazio.

Una vittoria scontata

Nelle parole del tecnico svedese c’è come un filo di malcelata follia per quel che è appena accaduto. Eriksson non si capacita, né può capacitarsi, di quanto accaduto. Con la calma quindi sì dei Lord, ma anche dei pazzi, l’occhio vitreo dell’allenatore nordico anziché stemperare l’aria, pesante e opprimente a un tempo, di quel caldo pomeriggio romano, quasi crea l’effetto opposto: una nuvola di tristezza si condensa sulla Roma e sui romanisti. Le lacrime si alzano in cielo e si trasformano in fulmini.

Quel pomeriggio la vittoria era stata annunciata come una formalità. La Roma, dinnanzi ai propri tifosi, in uno Stadio gremito in ogni ordine di posto, deve battere il povero Lecce, fanalino di coda e ormai già in Serie B, per vincere il terzo Scudetto della propria storia. Solo tre anni prima, infatti, era toccato a Liedholm quell’onore unico e raro di vincere il campionato nella capitale.

La Roma di Eriksson è una squadra che, partita con buoni auspici, credeva d’esser fuori dalla corsa Scudetto. O forse, lo credevano da fuori. I giallorossi si erano costruiti il titolo gradino dopo gradino, vittoria dopo vittoria, rimontando proprio i bianconeri con una risalita che ebbe dell’epico.

Ma come il montanaro che, saliti mille e mille metri, attraversata ogni sorta d’intemperia, superato ogni sorta di ostacolo, vede finalmente la vetta, la Roma, vista la vetta, si scioglie come la neve al primo Sole primaverile. Perché le metafore vanno bene su tutto, ma non sul calcio, dove l’imprevedibile è sposo di fortuna.

Troppi trionfalismi, come sempre, in casa giallorossa, rovinano una festa già pronta ad esplodere. Il giro di campo del Presidente Dino Viola, i tricolori confusi ai colori giallo e rosso, un entusiasmo lecito ma, col senno di poi, quantomeno funesto. Mai giocare col Destino. A Roma, dopo la finale casalinga persa col Liverpool in Coppa dei Campioni, dovrebbero saperlo. Non lo imparerà mai, il tifoso romanista.

Il Lecce che non ti aspetti

Tutto accade come nella più classica delle trame drammatiche. Il delitto è il gol di Graziani dopo pochi minuti, con una splendida incornata di testa, frutto di coraggio e prontezza; il castigo è il pareggio di Di Chiara.

Dopo aver tentato a più riprese di chiudere sul 2-0 la partita, la Roma lascia palleggiare il piccolo Lecce – un solo punto ottenuto in trasferta in tutto il campionato fino a quel momento. Il mondo è sottosopra. Il comun colore, il giallorosso, confonde le Parche, strabiche e astute artigiane del Destino. Il Lecce sembra la Roma. La Roma sembra il Lecce.

Un cross dalla trequarti, sporcato da un difensore giallorosso, cade sulla testa dell’attaccante salentino che, infilatosi tra due maglie romaniste, trafigge Tancredi per il gol del pareggio. Gelo sull’Olimpico.

I tifosi cercano di non pensare troppo a quel gol, in effetti frutto del Caso. Il problema è che è proprio il Caso ad esser padrone di quella sfida. Giannini sbaglia un passaggio orizzontale e permette ai pugliesi di ripartire in contropiede.

Il pallone arriva, sulla destra, al limite dell’area di rigore, sul piede di Pasculli. L’attaccante dribbla un difensore e, dopo un fortunoso rimpallo, si ritrova a tu per tu con Tancredi. Una finta di corpo sbilancia il portiere che è costretto ad atterrare l’attaccante avversario.

È il 42’. Barbas, dal dischetto, è glaciale come il Re della Notte. 2-1 per il Lecce. Ma la festa, sugli spalti, pare proseguire indisturbata.

Addio Scudetto

L’intervallo porta calma e consiglio ai giocatori della Roma, che entrano in campo, nella ripresa, con una marcia in più. Ma i padroni di casa non hanno fatto i conti con l’orgoglio del Lecce e la bravura del portiere ospite, Negretti, subentrato a Ciucci al 26’ del primo tempo.

È proprio Negretti a sventare le principali azioni d’attacco della Roma, con una freschezza di gambe e di pensiero che lo portano sulle bocche maldicenti dei 60.000 dell’Olimpico.

Prima Boniek, poi Di Carlo, si vedono respingere la gloria ad un passo dall’averla ottenuta. Il Lecce, dunque, rimane in piedi grazie al proprio portiere. Ed è proprio nel massimo sforzo dei padroni di casa, che arriva la più classica delle docce fredde.

Contropiede perfetto che la sapienza di Barbas trasforma in rete, dopo aver saltato Tancredi sull’esterno – stavolta il portiere giallorosso proprio non poteva fermare l’attaccante avversario. È la capitolazione definitiva. È notte fonda ma sono da poco passate le 16. È il 53’ minuto e il Lecce è sul 3-1. Incredibile a dir poco.

La Roma è tramortita e, cosa forse più grave, è fisicamente stremata. La rincorsa l’ha resa forte mentalmente, ma come il domino che tassello dopo tassello prende forma e al primo errore cade giù infrangendo il lavorio del tempo infame, così la Roma cade alla prima difficoltà.

Il gol di Pruzzo a 10’ dalla fine dà speranza ad un popolo ormai distrutto. Nel finale, su bella giocata del subentrante Conti, Nela ha sul destro la palla del 3-3, ma il suo tiro termina alle stelle. È l’ultimo atto di una tragedia sportiva.

Lo scudetto va alla Juventus, la Roma dovrà aspettare 24 anni prima di riabbracciare un sentimento sfuggitogli per troppa Superbia.