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Ci sono eventi, nella vita, di una tale rarità che, a vederli a posteriori, cioè già accaduti, quasi ci si spaventa. Vediamo ogni istante scandito nel tempo come se si trattasse non di un istante tra gli altri, ma dell‘istante preciso in cui il Destino s’incontra con la Fortuna, e dal loro sposalizio nasce Vittoria. Il borghettaro fuori dal San Paolo, il venditore (di amuleti) ambulante, lo sciarparo. Ogni napoletano se li ricorda, questi personaggi, nella loro unicità e istantaneità.

È il 3 novembre del 1985. La fila per “sfondare” i cosiddetti “tornelli” è tanto lunga da trasformare l’attesa in angoscia collettiva. Si sente il respiro di quello lì a 20 metri da te. Si sente la mano di chi ci sta di fronte stringersi convulsamente le dita sul palmo della mano. Si vedono i bimbi napoletani correre all’impazzata, la nonna tirare fuori dalla borsetta, con estrema cura, il biglietto valido per Napoli-Juventus, la partita di cui il marito le avrà parlato mille volte. Ora non c’è più, l’uomo della sua vita. C’è però un intero popolo.

Soprattutto, c’è un giocatore che fa dimenticare i mariti defunti, fa passare all’altro orecchio i decibel del borghettaro e fa dimenticare i pelucchi lasciati dalle sciarpe dei mercanti ambulanti. Il suo nome è Diego Armando e il cognome, per ora, neanche lo nominiamo. Quello che accadrà di qui a pochi minuti merita l’apofasi della teologia negativa, cioè nessuna definizione potrà mai essere adeguata a spiegare quanto succederà. Ma noi ci si prova comunque, con un pizzico di presunzione.

Andiamo con ordine allora. Gian Piero Galeazzi, invitato dalla Rai al servizio per la DS di quel giorno, viene fermato dalla marea di tifosi napoletani ansiosi di entrare allo stadio. Lui, che con la canoa sapeva gestire eccome i flussi di corrente – più o meno umani –, chiede quale sia il motivo di tanto clamore attorno a lui condensatosi: «Ho preso il biglietto martedì», gli dice un tifoso, «l’ho pagato 75.000 lire e avevo paura fosse falso». «E invece?», chiede Galeazzone. «E invece è vero… a quanto pare».

Poi, dirigendosi verso Maradona, gli chiede: «Va bene anche il pareggio oggi al Napoli?». Diego è senza peli sulla lingua: «No, no. La vittoria è quello che ce piace».

Bianchi intrappola Trapattoni

La partita inizia da 0-0, è vero. Ma il sentore è comune e diffuso, anche prima che le due squadre diano inizio alle ostilità: il Napoli o vince o vince. Stavolta per davvero, però. Anche con Platini in campo, quel Napoli è superiore. Maradona, certo. Ma anche Giordano. E Bagni, e Celestini. E a centrocampo quel Pecci che, con la maglia del Torino, seppe togliere ai bianconeri uno Scudetto tremendissimo. Di più c’è che si gioca al San Paolo, e questo non può essere un fattore indifferente, almeno per due motivi. Il primo è che, anche a volerlo cercare, non si vede un bianconero all’orizzonte. Il secondo è che, in questo mare azzurro che popola gli spalti, c’è una ragione ben precisa per credere alla caduta di cavallo di quel santo di cui lo stadio porta il nome: Diego Armando Maradona, senz’altro. Il miracolo è possibile.

Il primo tempo si chiude sullo 0-0. Bianchi ha studiato molto bene la partita. L’allenatore del Napoli sa che ingabbiare Platini equivale a togliere quasi tutto il gioco della Juventus. Così, attorno a lui, forma una gabbia che trova in Salvatore Bagni il suo guardiano più esperto. Già dopo tre minuti, Tacconi è costretto all’intervento disperato. Il Napoli aggredisce la Juventus con la forza dei 60.000 del San Paolo. La Vecchia Signora pare stanca e sfiduciata, anche perché lì davanti i rifornimenti sono rari e vacui.

Arriva infine il 40’ del primo tempo. Un contatto dentro l’area di rigore porta l’arbitro, Giancarlo Redini da Pisa, ad espellere senza troppe esitazioni, a coppia, sia Brio che Bagni, in un duello tra pesi massimi. Maradona protesta veementemente. Può farlo, certo, è il capitano. Ma nei suoi gesti, nervosi e impulsivi, sembra essere scomparsa quell’eleganza e quella compostezza del dio calcistico che, tutto d’un tratto, vede complicarsi il destino. Niente paura, comunque. Il Napoli riprende ad attaccare e con Celestini crea i presupposti per il gol del vantaggio, che però non arriva.

Tutti testimoni della “punizione impossibile”

Sempre più vicino all’area di rigore avversaria, il Napoli ha finalmente l’occasione di portarsi in vantaggio. Ma è solo un’occasione. Ripetiamo, scandendo bene la parola, e le sillabe: oc-ca-sio-ne. Caso, appunto. O destino, forse. Rimane il fatto che sono passati 25’ circa dall’inizio della ripresa e i partenopei possono ora usufruire di una punizione da dentro l’area di rigore. Chiamasi punizione a due. L’arbitro l’assegna quando il giocatore della squadra avversaria ha commesso un’infrazione per gioco pericoloso. NOMEN OMEN.

La distanza che separa Maradona e Bruscolotti dai pali della porta difesa da Tacconi è all’incirca di 11 metri. Direte voi: è un rigore in movimento. Sì, più o meno. Peccato però che la diagonale inganna e la barriera è bella ma non invisibile. C’è dell’altro. La distanza che corre tra quest’ultima e il pallone sul quale poggia la suola di un freddo Bruscolotti è – sì e no – di 5 metri. In una parola: lo spazio per far passare il pallone sopra la barriera non c’è. O meglio: c’è, ma poi la palla uscirebbe, finirebbe alta. E via l’ennesima speranza disattesa.

Diceva Tertulliano: «Questo è impossibile, dunque certo». Solo che parlava della Resurrezione. Un evento cioè per il quale la fede è inversamente proporzionale all’attestazione empirica. Ma il gol di Diego l’hanno visto tutti. Eppure, ogni volta è come se fosse la prima. Questo gol è semplicemente inspiegabile. Quando Bruscolotti gliela tocca, Diego sta ancora indicando con la mano la distanza – tutt’altro che regolare – della barriera al direttore di gara. Passano almeno 2’ da quando Maradona e il compagno protestano. Niente da fare. E allora che fare?

«Tiro lo stesso, tanto gli faccio gol comunque».

Diego Maradona

Dalla barriera – composta di quattro uomini – si staccano due giocatori. Se la matematica non è un’opinione, sei (sei!) bianconeri si schierano a difesa della propria porta. Maradona, infischiandosene altamente, colpisce la palla liftandola col mancino: la traiettoria che si alza e muore all’incrocio dei pali, appena sotto la traversa, non si può spiegare; si deve credere. Pasolini disse che il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. Quel giorno lo fu senz’altro.

Con quella inspiegabile, insana, irreale esercitazione balistica, Maradona regala ai tifosi del Napoli una vittoria da mettere nell’album dei ricordi più cari. Ferma la Juve che arrivava al San Paolo forte di un percorso netto in campionato, e restituisce colore ad un campionato che sembrava già morto. Un miracolo a tutti gli effetti. Qualcosa, appunto, non da vedere. Ma da credere.