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Cosa c’entra la semiotica con il calcio? Nulla. Però la prossemica, che ne è una branca inerente lo spazio e la comunicazione, può aiutarci a interpretare i suoi personaggi più enigmatici: gli allenatori.

Gli allenatori di Serie A e la comunicazione

In generale gli allenatori mostrano il meglio di sé quando vincono, ma è quando perdono (o, comunque, quando le cose vanno male) che emerge la loro vera natura. Cerchiamo allora di analizzare la comunicazione degli allenatori della Serie A tramite alcuni elementi di prossemica: la comunicazione verbale e quella gestuale, ma anche le distanze che impostano nelle loro relazioni esterne, quelle che possiamo vedere (con la stampa) e quelle che possiamo solo immaginare (con i propri giocatori).

Ricordiamo che poi ogni allenatore è anche un brand, che cerca di vendere se stesso nel modo migliore possibile. E ciò avviene generalmente cercando di esaltare al massimo i propri meriti e minimizzando i demeriti.

Trovare un allenatore che riconosca di avere perso meritatamente è abbastanza raro, ma è ancora più raro trovarne uno che ammetta di avere impostato una partita difensiva, come se ciò fosse un disonore. Se ci fate caso, sono sempre gli altri “molto abili a chiudersi e ripartire”.

Simone Inzaghi non è più un meme

Può apparire scontato iniziare da lui, ma non lo è affatto. Il tecnico piacentino ha fatto un salto di qualità anche sul piano comunicativo, un miglioramento che viene naturale collegare a una squadra che sul campo viaggia a meraviglia, ma forse è segno di una maturazione personale e professionale.
Non dimentichiamo, infatti, che fino all’anno scorso di questi tempi, Inzaghino era il tecnico dello “SPIAZE”, quella sorta di smorfia istintiva che faceva a favore di telecamere, guardando a destra e facendo spallucce. Ovviamente ciò accadeva dopo le sconfitte, che ricordiamo ad aprile scorso erano 10 in campionato, con voci insistenti di esonero in caso di eliminazione dai quarti di Champions contro il Benfica. Poi le cose sono andate diversamente, e oggi Inzaghi è molto più spigliato davanti alle telecamere, ma non solo.

Ha una buona parola per tutti i suoi calciatori, anche quelli che giocano meno. Come per altri tecnici, non sappiamo se e in qual modo Inzaghi usi il modo in cui parla in pubblico dei suoi calciatori come strumento per proteggere e/o stimolare i singoli, ma la sensazione è quella di una grande e ritrovata serenità.

Pioli, da on fire a dead man walking

Quando le cose fanno male, guardando l’espressione di Stefano Pioli che arriva davanti ai microfoni è quella di un uomo che “è già stato qui”. Il tecnico ne ha già passate tante in carriera, a Palermo non aveva nemmeno fatto in tempo a disfare le valigie che già Zamparini l’aveva esonerato. Poi sono arrivati altri licenziamenti a Bologna, Lazio, Inter, mentre dalla Fiorentina si era dimesso lui, dopo un KO interno con il Frosinone.

Per capire bene la sua parabola nel Milan, è però il caso di ripercorrerla dal principio. Pioli era arrivato in rossonero per sostituire Marco Giampaolo, altro profilo di cui ci occuperemo più avanti. In un ambiente già depresso di suo, il suo arrivo non era stato accolto esattamente con grande entusiasmo dalla piazza.
Ma in suo soccorso arriva nientemeno che il Covid. La ripartenza del calcio a porte chiuse è un inatteso assist per il suo Milan, composto in larga parte da giovani o comunque da giocatori che pativano assai il giudizio di San Siro, come un fardello. A porte chiuse il Milan rinasce, con 9 vittorie e 3 pareggi nelle ultime 12 giornate. L’anno seguente è secondo e torna in Champions League, quella che molti milanisti considerano casa. Ciò provoca una sorta di “tregua” della tifoseria nei suoi confronti, che diventa improvvisamente amore con lo scudetto – del tutto inatteso – del 2021/22. Da indesiderato, siamo arrivati al “Pioli is on fire”. Ma, come spesso accade quando si passa da un eccesso all’altro, non è finita qui. Oggi Stefano Pioli è un “dead man walking”, perché sa benissimo di non essere più nei piani della società ma affronta la situazione con una sicurezza in se stesso che probabilmente non è ostentata ma reale, perché ci è già passato.

Anche con la stampa è tutto sommato rilassato, anche quando risponde in maniera simpaticamente contraddittoria alla domanda su Antonio Conte. “Non mi infastidisce, mi annoia”. In inglese, infastidirsi si traduce proprio con “to annoy”. Maestro bilingue.

Mourinho e Allegri, gemelli diversi

Secondo alcuni, li accomuna un’idea di calcio un po’ superata. In realtà, le vere somiglianze tra José Mourinho e Massimiliano Allegri sono sul piano della comunicazione.
Entrambi sono molto bravi a portare i media esattamente dove vogliono loro, evitando domande scomode e portando la discussione sui binari preferiti. Entrambi sono stati spesso molto bravi a fare scudo ai giocatori con la propria personalità, ma nei momenti di difficoltà accade il contrario. Ecco allora che Mourinho sottolinea l’inadeguatezza di questo o quell’elemento della rosa, per rimarcare la necessità di rinforzi. Ed ecco che Allegri, dopo l’ingiustificabile prestazione contro l’Udinese, tira fuori la “mancanza di esperienza dei suoi giovani”.

Entrambi hanno lanciato e lanciano giovani calciatori, ma sono le condizioni ad essere cambiate. Mou aveva lanciato gente come Nacho e Morata al Real Madrid e McTominay al Manchester United, ma si trattava sempre di situazioni di contesti in cui si gioca per i massimi obiettivi. A Roma, invece, si è ritrovato in una situazione di subalternità, o almeno di una grandezza che la società provava a costruire anche ingaggiando lui come allenatore. Anche per tale ragione, lanciare i giovani a Roma era diventata per Mourinho una impellente necessità, ma lui ha fatto molto presto a trasformarlo in un alibi quando le cose non andavano per il verso giusto.

Qualcosa di simile è avvenuto con Max Allegri, che alla Juve aveva lanciato Coman, Kean e Bentancur ma, in tutti e tre i casi, si trattava di innesti in una squadra nettamente più forte di tutte le altre e che giocava col pilota automatico. L’Allegri-bis, quello tornato dopo che la società aveva rinnegato il doppio esperimento Sarri-Pirlo, ha fatto esordire un numero nettamente maggiore di giovani, ma in un contesto molto diverso e per esigenze differenti.

Con i giovani, Allegri palesa un atteggiamento di tipo paternalistico come il classicone usato con Yildiz l’estate scorsa: “intanto domani si deve taglià i capelli”. Da buon toscano e livornese, Max è molto incline alla battuta, ma sempre e solo quando vince, così come i riferimenti all’amata ippica. Avete mai sentito un paragone col mondo dei cavalli dopo una sconfitta? Mai.

In questo, Allegri si differenzia da Mourinho, che ormai sembrava quasi avere trovato la sua comfort zone nella trincea. Una delle ragioni per cui il portoghese si è alla fine fatto cacciare, è per questo avere portato all’estremo il cliché dell’uomo anti-sistema, dell’uno contro tutti, finendo per apparire anche contro i suoi giocatori.

I malinconici

C’è una sotto-categoria di allenatori che fa tanto rima con Malinconia. Di Filippo Inzaghi e del suo strano destino nel confronto con il fratello abbiamo già parlato. Di nuovo c’è che, purtroppo per lui, l’avventura con la Salernitana è già finita. Niente di nuovo sotto il sole, per la carriera da allenatore di Superpippo, che mostra una brama simile a quando trascorreva le partite aspettando la palla giusta da buttare dentro. La differenza è però che gettarsi su ogni pallone per provare a segnare è un conto, accettare qualsiasi incarico per dimostrare le proprie qualità è un altro. Forse Inzaghi dovrebbe mettere da parte questa sorta di bulimia da panchina, prendersi un periodo di pausa e assicurarsi che il prossimo incarico sia qualcosa che lo convince fin dal principio.

Una malinconia simile è quella che si prova a ogni nuova avventura di Marco Giampaolo. Il “maestro” è fermo ormai da un po’, ovvero dall’ottobre 2022, mese dell’ultimo esonero in carriera. Forse il meno prevedibile, viste le disastrate condizioni della Sampdoria dentro e soprattutto fuori dal campo. Ma la vera tragicità del “being Marco Giampaolo” si era palesata qualche anno prima, con il treno più importante della carriera: il Milan. Un treno acciuffato in maniera insperata, che però il Maestro aveva affrontato con una sorta di ansia da prestazione che lo ha mandato letteralmente in confusione. Da allora, la parabola professionale di Giampaolo è andata scivolando via. Nelle conferenze stampa, l’abruzzese è diventato sempre più somigliante a una vittima sacrificale consapevole del proprio destino, con un linguaggio del corpo che lo rende accostabile a un eroe proletario perdente, a un personaggio uscito da un film di Aki Kaurismaki. Ci auguriamo che torni presto, e che la sua possa essere una riscossa vera.

Da Ranieri a De Rossi, l’Alfa e l’Omega della franchezza

Chiudiamo con la categoria più “sincera” di allenatori, attributo ovviamente tra virgolette. Parliamo di quella rara specie di tecnici che non hanno paura di dire che l’avversario ha giocato meglio, o che la loro squadra ha pensato a difendersi. Parliamo innanzitutto di Claudio Ranieri, uno che ne ha viste talmente tante che potrebbe permettersi di tutto, ma preferisce rimanere sempre se stesso. Franco nel riconoscere i meriti degli avversari e nell’analisi delle partite, inflessibile quando c’è da fare schermo ai suoi giocatori. Sor Claudio è prossimo alla pensione, non vorrebbe chiudere con una retrocessione come seriamente rischia con il Cagliari, ma ha le spalle talmente larghe – e la gente gli vuole talmente bene – che supererebbe anche questo. Di una pasta simile sembra fatto Aurelio Andreazzoli, uno che ha vinto molto meno di Ranieri in carriera ma che non pare comunque interessato a barattare la sua coerenza personale con le dinamiche a volte un po’ finte della comunicazione nel calcio.

Sembra un profilo di tecnico simile anche Daniele De Rossi, almeno per l’impressione che ha dato fino a questo momento. Tralasciando gli aggiustamenti tattici apportati alla Roma, ha proprio cambiato registro comunicativo rispetto al suo illustre predecessore. In ogni sua intervista c’è un più o meno palese tentativo di mettere il calcio al centro di tutto, forse perché le nebbie di un ambiente avvelenato dal donchisciottismo del tardo Mourinho non sono ancora diradate. Anche in quello che traspare dal suo rapporto con i calciatori, sembra che questi si siano improvvisamente responsabilizzati. Daniele De Rossi ha usato la sua forte personalità, proveniente da una carriera leggendaria in giallorosso, per canalizzarla in un rinnovato entusiasmo nei suoi giocatori. Se DDR andrà avanti così, la Roma calcistica non potrà che giovarne.